Grandi lodi postume a Totò-goal. Meritate. Ma non cancellano il ricordo di come era stato accolto prima e dopo che esplodesse nelle magiche notti del 1990.
Cominciò Gianni Brera, chiamandolo “sicilianuzzo razzente”, poi il Corriere della Sera nel presentare la squadra schierata contro la Cecoslovacchia titolò spregiativamente ‘La banda Bassotti’. Ma poi i bassotti vinsero proprio con i goal dei due bassotti che più bassotti non si può, Baggio e Schillaci.
Ci fu un certo disorientamento nella stampa nazionale. La verità che nessuno voleva dire che Totò Schillaci era il vero simbolo di quell’Italia vincente e a molti risultava ingombrante, fastidioso, impresentabile, del tutto al di sotto dell’Italia moderna e rampante veicolata dai Luca di Montezemolo, dalle arditezze architettoniche dei nuovi stadi, dalle raffinatezze dell’elettronica, insomma tutta opposta a quella che veniva proposta dagli occhi lupigni di Schillaci, dalla sua goffaggine contadinesca, dal suo eloquio impacciato, meridionale-plebeo, espressione di un’Italia che si pensava ormai definitivamente consegnata ai nostri album di famiglia, da mostrare solo nei momenti di nostalgia, ma mai in quelli di esaltazione.
Quanto sarebbe stato più congruo Gianluca Vialli! Così per bene e così facondo e moderno, così metropolitano! E invece no, Totò Schillaci. E per fortuna!
E chissà cosa direbbe oggi Roberto Benigni a chi gli ricordasse una sua battuta di allora, pronunciata in una serata trasmessa dalla Rai: “Speriamo in una finale Italia-Camerun così Schillaci potrà giocare in tutte e due le squadre”. Un’infamia solo più banale, come spesso lo è il male, di un servizio pubblicato in quel tempo dall’illuminato settimanale L’Espresso che aveva sbobinato il contenuto di una conversazione tra un suo giornalista e Totò lasciando inalterate le costruzioni sintattiche e il lessico del calciatore proponendolo come un reperto paleolinguistico se non antropologico.