Piazza Vittorio Emanuele II, quella centrale del paese, trasformata in un cinema all’aperto. Le sedie, tante, rivolte verso il maxischermo issato sopra l’ingresso del bar. Per guardare la partita si davano le spalle alla Chiesa Madre, la chiesa era lo stadio Olimpico di Roma, la messa la cantava la Nazionale Italiana di Azeglio Vicini. I Mondiali ’90 diventarono rito per tutte le piazze d’Italia (e non solo), questa era la mia e in quell’estate, un po’ più italiana del solito, anche le notti di Santa Croce Camerina diventarono magiche.

Una ricetta semplice: mio papà che portava me e mio fratello in piazza a vedere le partite degli Azzurri. Lui seduto con gli amici, ma c’era mezzo paese, l’altro guardava l’Italia in tv a casa o in veranda. Noi bambini, indemoniati, giocavamo in piazza con maglie improvvisate come improvvisate erano le prime bandiere italiane modificate.

Sul tricolore, dalla terza partita in poi, apparve un volto, dapprima cucito in maniera artigianale, poi prodotta in massa. Tra il verde, bianco e rosso c’era TotoGol, Salvatore Schillaci. Era entrato a partita in corso contro l’Austria, col risultato inchiodato sullo 0 a 0, un cross di Vialli dalla destra cade in mezzo a due difensori giganteschi e il piccolo siciliano di Palermo diventa grande, diventa Totò incornando di testa e regalandoci la prima vittoria.

Il resto è storia, mito, leggenda, perché come Re Mida che trasformava tutto in oro, Totò trasformava tutto in gol. Fu capocannoniere, magra consolazione in un Mondiale di casa sfuggito ma onorato da una grande nazionale. Totò mi fece appassionare al calcio attraverso i suoi “miracoli”, aveva creato una “bolla” che andava oltre al calcio. Era riscatto per un ragazzo siciliano partito dalla periferia, era quella magia che ti cambia la vita e regala gioie infinite alle piazze.

La magia di Totò in nazionale è praticamente finita lì, l’amore della gente per lui no e continuerà ancora. Perché quegli occhi ruggenti e imploranti erano gli stessi di quegli italiani che hanno sofferto per conquistare ogni cosa, perché non era importante ciò che diceva nelle interviste ma quello che faceva in campo (l’importante è sempre stato questo), perché ogni suo gol lo leghiamo a un sorriso o un abbraccio alla persona che avevamo a fianco, e oggi mi pare di sentirlo forte, caldo e con nostalgia immensa.

Come diceva la canzone ufficiale, “Quel sogno che comincia da bambino / E che ti porta sempre più lontano / Non è una favola e dagli spogliatoi /, Escono i ragazzi e siamo noi”.

Quel sogno di bambino subisce oggi un colpo, perché in quell’estate italiana siamo stati davvero dentro una favola, eravamo davvero “noi”, tutti, ad accompagnare in campo i ragazzi. Uno di loro adesso ci lascia prematuramente, come a ricordarci che le favole non sempre hanno un lieto fine, ma si tramandano e restano eterne!

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