Messina è stata per Totò Schillaci quello che Napoli è stata per Maradona. Per questo il Celeste quel giorno era stracolmo. Era l’estate del ’90 e Totò era già capocannoniere del mondiale. Tutta la città aveva riempito gli spalti dello stadio per salutare il suo bomber. Un evento non sportivo: Totò veniva solo per salutare i suoi tifosi.

Per anni la città lo aveva visto crescere. Totò Schillaci, palermitano, era, infatti, il bomber del Messina. Fino ad un anno prima di diventare il goleador del mondiale giocava nello Stretto e giallorossa era la sua maglia. E proprio nello Stretto Totò era venerato. Così che la città, dopo il suo incredibile exploit mondiale, era andata in massa a salutarlo per un evento allo stadio che era semplicemente un saluto alla sua Messina. Era quello il suo campo: il Celeste. Quello che aveva le abitazioni attaccate allo stadio. Sì, si poteva andare al campo senza andare al campo. Così feci io negli anni di Totò: andavo la domenica a casa dei miei cugini, in via Oreto, per salire nella terrazza del palazzo in cui abitavano e vedere le partite della squadra dello Stretto.

Totò era il nostro bomber, l’ho già detto (ma non lo dirò mai abbastanza). Che più o meno vuol dire che per noi, per Messina, Italia ’90 fu indimenticabile. Appena 15enne e non pensavo ad altro: c’erano i mondiali e c’era Schillaci. Dalla terrazza al divano azzurro, il salto in alto era stato vertiginoso. Una sola annata in serie A ed era già in Nazionale. Nessuno di noi poteva crederci. L’esaltazione dei primi giorni del mondiale diventò presto un’emozione sbiadita in confronto al delirio successivo: dopo i suoi primi goal in città non si rintracciava più un briciolo di lucidità. Tutti impazziti per Totò.

“Perché non lo fa entrare subito?”, era questa la domanda che riecheggiava in tutti i bar della città. Azeglio Vicini, ct della Nazionale, nonostante il nostro bomber stesse sbloccando ogni partita con i suoi improvvisi prodigi, non se la sentiva ancora di fare giocare da titolare un calciatore che era in A solo da un anno. E non c’era anima viva in tutta la città che non ne fosse indignata. Messina, tutta Messina, sapeva chi fosse Schillaci. Non un improvviso prodigio ma lo stabile goleador della nostra squadra. “È la solita diffidenza perché è meridionale”, tentavano i complottisti.

In questo clima di esaltazione, delirio e sete di rivalsa, lo Stretto visse l’estate mondiale più bella della sua vita: ogni successo di Schillaci era pure nostro. Noi eravamo lui. Forse per questo, per quel delirio collettivo, Messina non vide mai l’Italia di Schillaci soccombere contro l’Argentina di Maradona. E forse anche in questa occasione c’entra la mano di dio…

Andò così. Eravamo tutti radunati in salone. C’era tutta la mia famiglia e c’erano gli amici di mio fratello. Io, cresciuta nel mito dell’82 di cui non ricordavo che un fotogramma – la tv messa fuori in terrazza per il gran caldo nel villaggio di mare di San Saba dove passavamo le estati e nient’altro – finalmente vedevo l’Italia giocare bene e vincere. Lo sport di famiglia era il basket in realtà, ma di fronte alle partite della nazionale la pallacanestro sbiadiva.

Già da piccolissima ero rimasta affascinata da come mio fratello prendesse fuoco di fronte al calcio. Sembrava tutto troppo emozionante per non prenderne parte. Così che iniziai a piazzarmi davanti alla tv, già molto piccola, per vivere quei momenti accanto a lui. Una valanga di domande: “Chi è il numero 10? Perché ha fischiato? Cos’è il fuori gioco?”. Finché mio fratello sbottava: “Vai a giocare con le Barbie”. Imperativo che manco a dirlo mi fece incollare davanti alle partite per sempre. E così, quando iniziò Italia ’90, a 15 anni, a furia di chiedere, qualcosa capivo e nel salone di casa mia ero in prima fila nella folla accalcata per guardare l’Italia di Totò. Il nostro grande bomber, il siciliano che trascinava tutta la nazione.

Fino ad Italia-Argentina. Era iniziata benissimo. Non solo perché eravamo in vantaggio ma perché ancora una volta quel vantaggio era segnato da lui. La sua fame di gol era la nostra stessa fame. E su rimpallo segnò ancora. Scene di delirio. In terra o correndo per tutta la casa. L’eco dalle altre case, finestre e terrazze. Un’esplosione che correva da nord a sud per tutta la città con identica intensità. Mentre a Napoli qualcuno raggelava, Messina tremava che neanche nel 1908.

Poi fu il buio. Letteralmente. Tutta la città, per cause ancora sconosciute, andò in black-out. Luce e tv fuori uso. Anche nella casa accanto, anche la luce del portone. Perfino fuori in strada. Buio pesto. Cosa sta succedendo? Siamo ancora in vantaggio? Il panico si diffuse in casa finché qualcuno non suggerì di scendere in macchina e accendere l’autoradio. E così fu. Nel marciapiede di via La Farina, la macchina con gli sportelli aperti, ma sarebbe meglio dire le macchine, perché furono in tanti a scendere: tutti radunati con l’orecchio teso.

Così sentimmo Caniggia avanzare, saltare Zenga e regalarmi la delusione sportiva più cocente della mia vita. Prima il pareggio, poi i rigori. Sentiti e non visti. L’Italia iniziò a perdere subito dopo il black-out di tutta la città. Come una vera mano di Dio che scelse di non farcelo vedere. Un dolore – sportivo s’intende – troppo forte per la Messina. Che non vide mai l’Italia di Totò perdere contro l’Argentina di Maradona.

Sullo Stretto, dunque, la nazionale non perse mai. E poco dopo un’intera città riceveva il titolo di capocannoniere: la sua carriera era la nostra. Qualche settimana dopo, esattamente dopo un anno da quando era andato via, Totò ritornò a casa. Al Celeste. Non giocava. Era lì solo per salutarci. E noi c’eravamo tutti. Lo stadio era pieno. E per la prima volta lo vedevo da vicino. Non potevo andare in terrazza. Dovevo vedere meglio. Così lasciai via Oreto per entrare dalla porta principale dello Stadio e salutare il nostro Diego. Il bomber della nazionale, il palermitano giallorosso. Il giocatore più amato di sempre e per sempre. Dalla mia città. E da me.

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