Diritti

“Ci accusano di non avere empatia con i pazienti, ma siamo soli e in queste condizioni è impossibile. Non è colpa dei medici, il sistema deve cambiare”

Le aggressioni ai danni di medici e infermieri che lavorano negli ospedali italiani non si fermano. Non si tratta di avvenimenti isolati, distribuiti a macchia di leopardo nel Paese. Gli episodi di violenza contro gli operatori sanitari si verificano quotidianamente, su tutto il territorio. La sensazione di essere in pericolo, di non essere sufficientemente protetti, è provata dalla grande maggioranza dei professionisti del Sistema sanitario nazionale: nel 2023 sono stati circa 18mila gli operatori aggrediti. Tra i medici, l’81% dichiara di essere stato vittima di violenza verbale o fisica. E secondo il presidente dell’Ordine dei medici, Filippo Anelli, dipende dalla deriva economicistica imposta alla sanità pubblica dalle scelte politiche: “Ormai siamo considerati un’impresa che deve produrre utili. Ma i medici non sono una macchina per fare soldi – spiega il presidente a ilfattoquotidiano.it -. Dovremmo avere il modo e il tempo di dedicarci alla parte più nobile del nostro lavoro, ovvero creare un rapporto con il paziente, stargli accanto durante il percorso della malattia, rassicurarlo. Dargli fiducia e sicurezza. Ma dopo anni di tagli e disinvestimenti siamo troppo pochi per farlo. Siamo costretti a concentrarci solo sull’assistenza sanitaria e a tralasciare la comunicazione con il malato e con i suoi parenti. E da qui nasce spesso la frustrazione dei cittadini”.

L’ultimo episodio di violenza in ordine di tempo è avvenuto il 18 settembre, alla guardia medica di Melito di Napoli: due camici bianchi sono stati aggrediti da cinque persone. Ma solo nell’ultima settimana, si sono registrati casi a Genova, Pisa, Mondragone, Reggio Calabria, Caserta. E ancora, il 16 settembre, all’ospedale San Maurizio di Bolzano, un medico è stato colpito alle spalle con un coltello da cucina da un ex paziente. Pochi giorni prima, sempre a Bolzano, un infermiere era stato preso a botte da due pazienti che aspettavano il loro turno in pronto soccorso. A Pescara 40 persone hanno devastato il reparto di oncologia dopo la morte di un parente. Mentre a Foggia, dove sono avvenute tre aggressioni in poche ore, una cinquantina di persone ha assaltato il Policlinico, costringendo i sanitari a barricarsi dentro un ambulatorio. All’ospedale di Vibo Valentia, dopo le recenti aggressioni, il prefetto ha deciso di mandare l’esercito a presidiare le corsie.

Secondo un questionario dell’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie (Onsepsi), nel 2023 le segnalazioni complessive sull’intero territorio nazionale (a esclusione della Sicilia) sono state oltre 16mila, per un totale di circa 18mila operatori coinvolti. I medici aggrediti sono stati 2.897: quasi otto al giorno. In base ai risultati dell’ultimo sondaggio del sindacato medico Anaao-Assomed, pubblicati lo scorso marzo, l‘81% dei camici bianchi intervistati riferisce di essere stato vittima di violenze. Di questi, il 23% riporta aggressioni fisiche, il 77% verbali e il 75% ha assistito personalmente a episodi che hanno coinvolto altri colleghi. Le aggressioni sono compiute dal paziente solo nella metà dei casi (51,3%) mentre i parenti sono responsabili del 42,3% degli eventi. Il sondaggio, inoltre, sottolinea come il 69% dei sanitari non denunci il suo aggressore. Sintomo, spiegano dal sindacato, di una diffusa sfiducia verso il fatto che l’azione legale possa condurre a risultati concreti. Per di più, conferma l’associazione Nessuno Tocchi Ippocrate, molti operatori desistono per il timore di subire ulteriori minacce da parte dell’aggressore.

La mancanza di risorse e di personale è un tema che ricorre ascoltando le testimonianze dei medici che lavorano negli ospedali e che quotidianamente assistono, in prima persona o meno, ad aggressioni verbali e fisiche. Soprattutto nei pronto soccorso, la prima frontiera della sanità pubblica. I reparti di medicina d’emergenza-urgenza ogni giorni sono costretti a fronteggiare enormi flussi di pazienti, mentre assistono all’inesorabile emorragia di personale sanitario che, a causa delle condizioni a cui è sottoposto, sceglie di lasciare il proprio posto di lavoro. I cittadini, non trovando supporto nella sanità territoriale o nei medici di famiglia, si riversano nei pronto soccorso, percepiti dalla popolazione come unici presidi sanitari sempre accessibili. Nel 2023 gli accessi sono stati 18 milioni. Di questi, 12 milioni erano codici bianchi e verdi, livelli bassi di urgenza che in alcuni casi potevano essere gestiti in sicurezza in altre strutture. Questa mancanza di filtro fa sì che gli operatori sanitari del pronto soccorso si trovino a dover affrontare contemporaneamente situazioni di vita o di morte – come infarti, ictus e traumi gravi causati da incidenti – e malanni comuni, come cefalea o diarrea. A questo si aggiunge la gestione di tutti quei pazienti che attendono in pronto soccorso di essere ricoverati in altri reparti dell’ospedale, dove mancano posti letto.

Il personale è gravemente sottodimensionato, sottopagato, sfibrato da ore e ore di straordinari e, con l’aumento delle violenze, anche terrorizzato dalla possibilità di venire aggredito. “Le persone talvolta lamentano mancanza di empatia da parte dei medici, poca pazienza e tempo dedicato all’ascolto. Ma, se mi trovo da solo in pronto soccorso e ho quattro codici rossi, è impossibile che io riesca a non trascurare alcune parti del mio lavoro – prosegue Anelli -. È ovvio che la comunicazione con il paziente e i suoi cari sia la prima cosa a saltare”. E così la frustrazione tra gli utenti aumenta, insieme alle lamentele, gli episodi di isterismo e, nei casi più drammatici, le aggressioni. “Ma non sono i medici i responsabili di questo clima di sfiducia. Non è colpa nostra se un paziente aspetta 20 ore. È il sistema che va riconsiderato – continua -. Servono risorse. Ora che siamo all’alba della Finanziaria lo ribadiamo. Anche perché tutti i cittadini sosterrebbero scelte politiche che prevedono investimenti nella sanità pubblica. Invece fino ad ora abbiamo assistito a tagli e al progressivo smantellamento del sistema universalistico. Questo approccio favorisce il privato e aumenta a dismisura le disuguaglianze”.

Per le associazioni di categoria è necessario intervenire subito per ridare ai professionisti la tranquillità necessaria a svolgere un lavoro così delicato. Il primo passo è rafforzare la sicurezza all’interno delle strutture, con dei presidi delle forze dell’ordine e dei sistemi di controllo: “L’arresto in flagranza differita con la videosorveglianza sarebbe già un passo in avanti in questo senso – spiega Anelli -. Spero che il governo lo adotti con un decreto il prima possibile”. Un’altra proposta sul tavolo è quella di introdurre una sorta di daspo sanitario per punire chi aggredisce il personale medico e infermieristico. La misura è contenuta in un disegno di legge presentato dal senatore Ignazio Zullo, capogruppo di Fratelli d’Italia in commissione Lavoro e Sanità. Il provvedimento, pensato come deterrente, prevede la sospensione della gratuità di accesso alle cure programmate e di elezione per tre anni nei confronti di chi si rende protagonista di aggressioni al personale o di reati contro il patrimonio sanitario. “Sembrerebbe il giusto contrappasso per chi commette violenze nei confronti di chi lo cura – dichiara Anelli -. Ma questo principio ha dei risvolti che cozzano contro l’articolo 32 della Costituzione che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo. Per questo abbiamo una serie di dubbi a riguardo. Bisogna comunque rispettare il principio per cui a nessuno può essere negato il diritto alle cure”, commenta il presidente dell’Ordine.

In secondo luogo bisogna educare i cittadini, intervenire su un piano culturale. Far comprendere loro quali siano le condizioni in cui lavorano gli operatori del Ssn e combattere la mentalità diffusa per cui il paziente sia un consumatore, a cui deve essere garantito un risultato. “Le persone si sentono legittimate ad andare da un medico e dire: o fai come voglio io o ti meno”, commenta Anelli. “Dobbiamo essere messi nelle condizioni di poter esercitare al meglio il nostro lavoro”. La sensazione dei professionisti sanitari è di essere vittima di una beffa. “Ci impegniamo per andare oltre i problemi e poi ci ritroviamo ad essere considerati colpevoli di un eventuale insuccesso, spesso inevitabile. Alcuni colleghi sono stati aggrediti dai parenti di un paziente oncologico deceduto a 90 anni”, prosegue. È come se non si tolleri più l’idea di poter morire. Come se dal medico ci si aspetti un risultato garantito, la cui assenza è indice per forza di un errore sanitario. “Il tema della morte è stato totalmente accantonato nella nostra società, quando invece fa parte della vita. La nostra professione dovrebbe permetterci anche di affrontare conversazioni di questo tipo con i pazienti, sarebbe la parte più nobile del nostro lavoro”, spiega ancora Anelli. E conclude: “La malattia ti devasta, ti cambia le prospettive. In quel momento chi soffre ha bisogno di sentire che ha un professionista accanto. Ma in questo sistema, con queste scelte politiche, non siamo più in grado di fare appieno il nostro lavoro”.