Il medico chirurgo Sherwin Nuland ha scritto: per conoscere la cultura di una società basta vedere come si prende cura della malattia. Mai come in questo periodo, in cui si è arrivato a parlare di militarizzazione degli ospedali come deterrente per le aggressioni, questo concetto sembra calzante ed eloquente.
Nel giro di poche settimane si sono talmente moltiplicati i casi di aggressioni al personale sanitario fino al punto di portare il problema direttamente sui tavoli governativi, dove sono state formulate ipotesi di pena con cui giudicare questo genere di reati. È stato persino redatto un ddl a firma di Ignazio Zullo (FdI) che prevederebbe la sospensione per tre anni dalla gratuità delle cure pubbliche per chi delinque contro sanitari o contro il patrimonio sanitario: una sorta di Daspo, applicato alla sanità, con valore non solo sanzionatorio, ma soprattutto di “deterrenza per il compimento di altre azioni simili”, si legge nella Relazione introduttiva al ddl.
A stupire naturalmente non è solo la dimensione totalmente punitiva del problema, ma lo scollamento totale di questi episodi dal sostrato eziologico in cui stanno progressivamente crescendo di numero e frequenza. Già lo scorso marzo 2023, in una relazione presentata alle Camere dall’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie (Onseps), erano stati rilevati ben 16mila episodi di aggressione con 18mila operatori coinvolti. E i casi, come si vede, sono in aumento. A questo punto è lecito domandarsi: è improvvisamente e irragionevolmente impazzita l’utenza o le ragioni del fenomeno sono più complesse e hanno guarda caso a che fare con questioni storico-politiche, ovvero col progressivo smantellamento della nostra sanità pubblica? Il tenore della domanda è naturalmente retorico, poiché è impossibile non notare come al diminuire di risorse e servizi stia corrispondendo una crescita di questi crimini.
Non occorrerebbe dirlo ma sempre meglio specificarlo: non si tratta ovviamente di redigere un’apologia di questi misfatti, né si può in alcun modo giustificare chi si macchia di questi reati che appunto come tali vanno considerati; si tratta semmai di non voler liquidare la questione come fanno giornali, telegiornali e salotti televisivi, pensando solo a come punire a dovere gli aggressori a tutela degli aggrediti. Il gioco in fondo è sempre lo stesso, ovvero quello di allestire la solita guerra tra poveri – in questo caso tra curanti e curati – per non voler andare al nodo apicale del problema. Dividere per non analizzare. Quando si dice indicare la luna e guardare il dito: conviene d’altronde. Da anni – non è una novità – i pronto soccorso degli ospedali sono allo stremo, con un progressivo esodo del personale sanitario, che, sopraffatto da turni faticosi, preferisce lasciare il servizio, quando non addirittura trovare più gratificazione all’estero.
Il decennio 2011-2021 ha rappresentato, per la nostra sanità, un momento di drammatica crisi. A essere sotto bersaglio è non solo il diritto alla salute, ma anche l’accesso dei cittadini a una medicina efficiente. Come già denunciava l’anno scorso il Forum delle società scientifiche dei clinici ospedalieri e universitari italiani (Fossc), in dieci anni sono stati 125 gli ospedali chiusi, circa 30mila i medici mancanti, 7.000 gli infermieri e 100mila i posti letto.
Per non parlare del crescente sopravvento del privato. Non bastavano gli ambulatori di medicina specialistica o le strutture per gli esami diagnostici; da qualche anno a questa parte un nuovo esperimento pionieristico sta dando il definitivo colpo di grazia, vale a dire i nuovi pronto soccorso privati, dove con qualche centinaio di euro puoi tranquillamente saltare le canoniche ore di fila dell’accesso pubblico. Ne deriva che chi può si cura nell’immediato; chi non può aspetta pazientemente il suo turno e senza doglianza alcuna.
E ancora non è tutto. Il problema è molto spesso anche l’approccio, vale a dire una maggiore necessità di ascolto della persona. Nei contesti ospedalieri talvolta si esplicita la più profonda e sentita richiesta d’aiuto degli esseri umani o per se stessi o per i propri cari in difficoltà: rispondere a queste richieste a fatica e con l’applicazione deterministica di protocolli asettici non è che una conferma della cronica mancanza di risorse a disposizione del cittadino. Un problema che, ad esempio, conosce bene chi ha un familiare affetto da patologie psichiatriche. In psichiatria come in tutta la medicina, la relazione di cura rappresenta l’asse portante dell’intera assistenza: se si vuole rifiutare un approccio clinico esclusivamente fondato sulla mera prescrizione e somministrazione farmacologica, è assolutamente urgente incrementare la presenza di figure professionali che in vario modo costruiscano relazioni dirette con i pazienti.
Invece lo svuotamento assistenziale incrementatosi dopo la pandemia in ambito psichiatrico come altrove dimostra l’assoluta urgenza di nuova linfa nella territorialità e nella prossimità alla persona. Non ne va solo della salute del singolo, ma della salute dell’intera società. Altro che esercito!