di Michele Sanfilippo

Il libero mercato per diverse decine di anni è stato la migliore ricetta per la crescita economica dei paesi che l’hanno praticato e, laddove in presenza di una democrazia matura e in grado di predisporre una tassazione progressiva, anche capace di redistribuire parte di questa ricchezza tra le fasce meno abbienti della società.

Dopo la definitiva sconfitta del socialismo reale, che nessuno rimpiange, il libero mercato è stato incorporato all’interno del neoliberismo economico per essere spogliato di tutta la sua attenzione ai problemi sociali, attraverso un arretramento della politica dalla gestione dei servizi pubblici per lasciare spazio ai privati. Da molti anni, ma soprattutto dopo la crisi del 2007, questa dottrina sembra non essere più in grado di dare alla società attuale le risposte che servono. Ma questo è un problema puramente etico.

Il problema maggiore consiste nel fatto di aver delegato al mercato il compito di soddisfare le necessità di una società che è ormai globale. Il mercato ragiona solo in termini di vantaggio economico immediato senza alcuna visione non dico di lungo, ma neppure di medio termine. Quest’affermazione è ampiamente dimostrata da come viene affrontata (o meglio ignorata) l’emergenza ambientale strettamente interconnessa a quella climatica.

Sappiamo, per esempio, che gli allevamenti intensivi e l’agricoltura, che fa un uso smodato di pesticidi, sono causa della gran parte dell’inquinamento che affligge il pianeta (consiglio a tutti di vedere Food for Profit di Giulia Innocenzi che chiarisce perfettamente lo stretto legame tra politica e un mondo d’affari privo d’ogni scrupolo). Eppure, nonostante l’azione di persone come Carlo Petrini, che denunciano da sempre questa aberrazione, per le grandi aziende di produzione sembra non esistere altro modo di produrre cibo. Perché di produzione si tratta: non di allevamento o agricoltura, ma produzione svolta senza alcun rispetto per gli animali o, peggio, per la terra che nel frattempo ci sta preparando un conto salatissimo (i casi sempre più frequenti di inquinamento delle falde acquifere sono, a dir poco, inquietanti). Ma, dato che non ci interessa guardare oltre il profitto immediato, questo a quanto pare vogliamo ignorarlo.

Se davvero vogliamo dare una risposta ai problemi che dovranno affrontare le nuove generazioni dobbiamo uscire dalla logica della competitività economica e abbracciare una visione di salvaguardia dell’ambiente e, quindi, della vita in generale (non solo quella umana). Eppure, affidiamo tutte le nostre speranze a Draghi che ha speso tutta la sua vita a favorire le privatizzazioni in funzione di una crescita economica infinita che, com’è evidente, tale non potrà essere.

Il suo tanto acclamato (dall’informazione mainstream) discorso va nella direzione che ha caratterizzato tutta la sua attività e cioè quella della supremazia economica per poter continuare a mantenere il nostro folle stile di vita. È vero che c’è qualche accenno alla tutela dell’ambiente (o come è di moda dire adesso la sostenibilità ambientale: sostenibilità è un termine che non può mai mancare quando si vuole fare del greenwashing) o al mantenimento degli (ormai esigui) strumenti di welfare che i paesi europei forniscono ai cittadini. Ma non c’è neppure una minima menzione del fatto che il pianeta presto ospiterà dieci miliardi di abitanti, le risorse alimentari e naturali non sono infinite e senza un cambio di paradigma economico l’unica strada che abbiamo davanti ci porta direttamente verso lo schianto contro l’iceberg. Ma forse Draghi spera che il surriscaldamento globale lo faccia sciogliere.

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