“Sono partito” per l’Egitto “con il convincimento che fossero stati gli apparati egiziani ad avere responsabilità sulla morte di Giulio Regeni, preceduta dal suo sequestro e dalle torture. La convinzione scaturiva da un’esperienza personale e da informazioni scambiate con l’intelligence di altri Stati. L’8 marzo in Egitto mi hanno tenuto un’ora e mezza per i controlli. Qualcuno voleva farmi capire che non ero il benvenuto, poi è venuto il capo del cerimoniale a prendermi”. È il racconto fatto in aula Occorsio al Tribunale di Roma da Marco Minniti, ex sottosegretario con delega ai Servizi Segreti, sentito come teste nel processo sulla sparizione, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni, avvenuto in Egitto nel 2016, nel quale sono imputati quattro 007 egiziani. Ovvero, Usham Helmi, il generale Sabir Tariq e i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati del reato di sequestro di persona pluriaggravato (mentre al solo Sharif sono contestati anche i reati di concorso in lesioni personali aggravate e di concorso in omicidio aggravato, ndr).
Incontrando Al Sisi “volevo lasciare tre messaggi: che non avremmo rinunciato mai alla verità, che eravamo convinti che erano coinvolti gli apparati egiziani e in ultimo che chiedevamo collaborazione“, ha continuato Minniti. Per poi precisare: “Ho avuto la sensazione che la banda di finti rapinatori fatti ritrovare uccisi fu un modo per darci una finta verità, un metodo già usato con altri stranieri uccisi in Egitto che aveva funzionato. Un francese (Eric Lang, cittadino francese, che morì dentro una stazione di polizia egiziana, ndr) fu massacrato di botte in commissariato e la magistratura francese accettò la versione fornita dal Cairo. Noi invece mettemmo in chiaro che non avremmo accettato soluzioni di depistaggio“, ha continuato Minniti.
Per il teste il depistaggio, messo in atto dopo il suo primo incontro con Al Sisi l’8 marzo del 2016, “fu un modo per coprire coloro i quali hanno ucciso Regeni e vista la mancanza di collaborazione decidemmo di richiamare l’ambasciatore”. E ancora. “Io fui avvisato il 31 gennaio 2016 della scomparsa di Regeni, dopo alcuni giorni, perché in Egitto sono frequenti i ‘fermi non ufficiali’ di cittadini stranieri. Il mio convincimento è che sono stati gli apparati egiziani ad uccidere Giulio e gli imputati sono i responsabili”.
“Entrambi i testimoni che abbiamo sentito oggi hanno dichiarato che loro avevano percepito fin da subito che tutto il male del mondo che si era abbattuto su Giulio era opera degli apparati di sicurezza egiziani e che hanno condiviso questa intuizione con le intelligence dei Paesi alleati”, ha commentato l’avvocata Alessandra Ballerini, legale dei genitori di Giulio Regeni, sottolineando che è “molto importante il fatto che è emerso con chiarezza che l’Egitto non è un Paese sicuro, neanche per gli italiani. Minniti ha detto in maniera chiara che l’Egitto è un regime autoritario e che di fatto è stata la paranoia di questo regime a decidere le sorti di Giulio. E che Giulio era un ricercatore brillante, che faceva un lavoro legittimo di ricerca e non ha mai lavorato per i Servizi”.