L’11 settembre scorso, la Commissione Cultura della Camera ha adottato una risoluzione, presentata dalla Lega, per impegnare il Governo a escludere “che l’insegnamento scolastico venga utilizzato per propagandare tra i giovani, in modo unilaterale e acritico, modelli comportamentali ispirati alla cosiddetta ‘ideologia gender’.”

Si tratta di un mero atto di indirizzo, senza alcuna ricaduta deliberativa immediata, se non quella di sollecitare il Governo ad agire nel senso indicato dalla risoluzione, con le forme, i modi e i tempi che riterrà opportuni. Un impegno peraltro che è tutto solo politico, e che dunque potrebbe restare senza alcuna conseguenza.

Va tuttavia segnalato che, il 20 maggio, Laura Ravetto per la Lega ha già presentato alla Camera un disegno di legge recante il divieto di inserire nell’offerta formativa scolastica “obiettivi educativi e di apprendimento costituiti da dottrine, ideologie o pratiche fondate sulle cosiddette ‘teorie del gender’.” E c’è da immaginare che la proposta almeno nei suoi primi passi andrà speditamente, visto che in prima battuta se ne occuperà proprio la Commissione Cultura che ha approvato la mozione dell’11 settembre scorso.

Questa volta, non pare operare da efficace fattore di resistenza quel sacro timore per l’indeterminatezza della norma che invece agitava l’attuale maggioranza nella discussione sul contrasto all’omofobia. C’è del miracoloso, ma pare che chi allora non riusciva a capire cosa si intendesse per discriminazione e violenza “per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”, ora invece sappia con assoluta certezza cosa si intende per “teorie del gender”.

L’onorevole Ravetto, bontà sua, nella sua proposta di legge si lancia anche in un tentativo definitorio: “Qualunque teoria che affermi l’indipendenza, la variabilità o la reversibilità dell’identità di genere rispetto alle caratteristiche sessuali oppure la molteplicità delle forme di identità di genere in relazione agli orientamenti sessuali soggettivi dell’individuo”.

Con una formulazione così, a scuola non si potrebbe citare neanche la Dignitas infinita di Papa Francesco. Anche lì, infatti, si deve almeno ammettere che “non si deve ignorare che sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere”, anche se poi il documento specifica che non si possono separare, ma questa è altra storia (Dignitas infinita, 59). E, in effetti, che sex e gender si possano distinguere – e dunque siano indipendenti e variabili – è un dato di fatto: che esistano varianze o incongruenze non è una teoria, ma una realtà.

D’altra parte, se si legge bene la Dignitas infinita e i correlati interventi del Papa – visto che la mozione dell’11 settembre, nelle sue premesse, lo tira in ballo spregiudicatamete –, è chiaro che la “teoria gender” d’Oltretevere non è proprio quella del ddl Ravetto. Per il Papa, la “teoria gender” non afferma “l’indipendenza, la variabilità o la reversibilità dell’identità di genere” o “la molteplicità delle sue forme”, ma “nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna” e “prospetta una società senza differenze di sesso” (Amoris Laetitia, 56). Non è proprio la stessa cosa, a riprova del fatto che per “teoria gender” ciascuno intende quel che intende intendere. Succede così con le cose che non esistono.

Certo, nessuno si attende che sarà punito il maestro che leggerà Dignitas infinita a scuola, è chiaro. Ogni enunciato normativo ha un suo ineliminabile livello di indeterminatezza – come ogni prodotto umano –, ma il sistema garantisce una applicazione secondo ragionevolezza da parte dell’autorità giudiziaria, le cui decisioni peraltro possono essere impugnate, etc. Ve lo ricordate quando cercavamo di spiegarlo anche per il ddl Zan? Niente; allora non riuscivano a capirlo. Invece, ora, improvvisamente…

Solo che fa un po’ più paura, sinceramente, l’indeterminatezza che resta sulla “teoria gender” – su cui neanche Ravetto e il Papa son d’accordo – rispetto a quella che poteva esserci su “violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. Un calcio ad un “froc*o” è piuttosto determinato; ma dire in Aula che c’è chi non si riconosce nel sesso attribuitogli alla nascita?

D’altra parte, qui c’è in ballo un valore costituzionale tra i più importanti, che è la libertà nell’insegnamento delle scienze. Art. 33 Cost.: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Per i costituenti era così importante da meritare una specificazione rispetto alla più generale libertà di espressione del pensiero, di cui all’art. 21. Anzi, di più: se la libertà di espressione trova il limite espresso del buon costume – inteso come pudore sessuale –, lo stesso limite non opera per l’arte, per la scienza e per il loro insegnamento, di cui rappresenta “quasi una prosecuzione ed espansione” (Corte cost. 240/1972).

Libertà di insegnamento significa “necessità che lo spazio scolastico sia caratterizzato da un’adeguata neutralità, in qualsiasi forma di insegnamento scolastico e quindi assicurino che tutte le attività proposte nelle scuole del Paese rispondano a criteri di rispetto e di libertà che favoriscano la costruzione di un sapere critico per gli studenti”. Sono le parole esatte della mozione approvata alla Camera l’11 settembre scorso, che in questo è impeccabile. Come poi, su queste premesse, si possa arrivare a vietare la circolazione degli studi di genere è un altro dei misteri di questi tempi da fascisti su Marte.

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