La letteratura palestinese contemporanea è viva e, in tempi non biblici, per una volta, arriva fino a noi, in italiano. Grazie alla casa editrice E/O e alla traduzione di Barbara Teresi, dal 25 settembre, sarà disponile in libreria, “Una maschera color del cielo”, il romanzo di Bassem Khandaqji, che ha vinto l’International Prize for Arabic Fiction, il più prestigioso riconoscimento per la letteratura di lingua araba, ottenendo anche un premio di 50mila dollari per agevolarne la traduzione in inglese. Il premio in denaro, oltre all’importanza della nomina prima e della vittoria poi, ha scatenato molte polemiche sulla stampa israeliana perché Bassem non è un autore qualsiasi, ma un prigioniero palestinese – nato nel 1983 a Nablus, nella Cisgiordania occupata – da 20 anni nelle carceri israeliane, condannato a tre ergastoli nel 2005 per l’attentato del 1° novembre 2004 al Carmel Market di Tel Aviv, in cui morirono 3 persone e 50 rimasero ferite a seguito di un attentato suicida compiuto da un 16enne.
Il collegamento fra l’attentatore e Bassem? Secondo l’Idf, Bassem, che all’epoca era uno studente universitario, avrebbe agevolato l’ingresso dell’attentatore suicida a Tel Aviv, utilizzando il suo tesserino da giornalista rilasciato dall’Università A-Najah di Nablus. Secondo la stampa araba, ma soprattutto secondo il Human Rights Council dell’Onu (qui il documento integrale), Bassem è stato processato “in modo improprio” da un tribunale militare con una pesantissima accusa di terrorismo – ricevuta dopo il più classico degli iter: prima l’arresto senza mandato nel cuore della notte, poi la tortura, infine la confessione estorta in assenza di un avvocato e l’isolamento – a causa delle sue opinioni politiche.
Nel 2004, infatti, siamo nel pieno della Seconda Intifada e per uno studente ventenne, che a 15 anni si era unito alle file dell’allora Partito comunista del Popolo palestinese, la lotta per la sopravvivenza del proprio popolo è pane quotidiano. Sono gli anni in cui Ariel Sharon, un militare, anzi un generale, è il premier israeliano, gli anni in cui lanciare una pietra contro un blindato è già diventato un reato punibile con la prigione. Del resto, se dopo 20 anni passati in varie carceri israeliane, Bassem trova ancora la forza e il coraggio di scrivere romanzi (questo tradotto in italiano non è il primo, ndr), poesie e articoli, in cui denuncia “il fascismo della sorveglianza del mio popolo nella Cisgiordania”, nonostante le punizioni che comporta la fuoriuscita di qualsiasi materiale, anche letterario, oltre le mura carcerarie, si può pensare che il suo spirito combattivo, allora come oggi, sia rimasto indomito.
Questa forza d’animo prorompe da ogni pagina di “Una maschera color del cielo”: il protagonista, Nur, è un palestinese, nato in un campo profughi vicino a Ramallah in Cisgiordania. Ricercatore in storia e archeologia, è anche uno dei tanti lavoratori che ha bisogno di un permesso del governo israeliano per trovare un umile impiego “nel cuore dell’entità sionista”. In queste vesti dibatte con se stesso, in perenne conflitto sul suo ruolo in una società modellata dall’occupazione. Il suo migliore amico, Murad, in carcere con una condanna all’ergastolo, rappresenta non solo l’alter ego politico dell’autore, ma anche il grillo parlante che spinge Nur a chiedersi continuamente: “Che importanza può avere l’archeologia per chi vive in un campo profughi?!”. Basta però guardare l’homepage di un giornale progressista come Haaretz per rendersi conto dello spazio riservato a questa disciplina – subito sotto le ultime su guerra e politica – perché è tramite la sua deformazione, che le città hanno cambiato nome e così l’intero Paese: là dove un israeliano vede la traccia di ciò che c’è scritto nella Torah e con essa una legittimazione di se stesso in quel preciso luogo (nel libro è l’episodio della tomba di Sansone, nuovo nome per ciò che resta , in realtà, della cittadina palestinese di Saraa, distrutta per far posto al kibbutz Tzora, ndr), un palestinese ricorda ciò che c’era prima. Prima del 1948, prima della Nakba. Prima che la Palestina smettesse d’esistere nella sua interezza.
Il punto di svolta arriva quando Nur scopre che può usare il suo bell’aspetto, gli occhi azzurri, la pelle chiara, i capelli biondo scuro per diventare “l’ashkenazita”. Ecco la prima ‘maschera’, i suoi stessi lineamenti. Ma è quando compra una giacca di pelle in un negozio dell’usato, che la maschera diventa una seconda pelle, non più distinguibile dalla prima. Dentro la tasca interna, infatti, Nur trova “una carta d’identità sionista di colore azzurro, in perfetto stato”, dimenticata dal proprietario: Ur Shapira, residente a Tel Aviv. Da quel momento in poi, il protagonista riuscirà a farsi assumere nella tana del lupo, in uno scavo nei pressi dell’insediamento a Mishmar HaEmek, frequenterà colleghi “bianco-blu”, entrando sempre più a fondo nella mentalità dell’occupante per “avere contezza dei tuoi diritti, quelli che ti sei inventato su questa terra. – dice Nur rivolto a Ur in un dialogo interiore – Il tuo diritto di esistere. Il diritto alla libertà. Al movimento. All’insediamento. All’occupazione. Alla detenzione. All’assassinio. Il tuo diritto di sfollarmi, confiscare i miei beni, scacciarmi, escludermi ed emarginarmi. Voglio imparare tutti i nomi sionisti per poterti fronteggiare”.
“Bassem è stato messo in isolamento quando si è saputo che poteva vincere il Premio – mi spiega Barbara Teresi, arabista e traduttrice del libro – Lo hanno ritirato il fratello Youssef e l’editrice libanese che nel 2023 ha pubblicato il volume, Rana Idriss. A curare l’edizione per Dar Al-Adab – la stessa casa editrice che ha dato alle stampe anche un altro libro scritto da un detenuto palestinese, Il racconto di un muro di Nasser Abu Srour, tradotto per Feltrinelli da Elisabetta Bartuli) – sono stati proprio Youssef e la sorella Amneh, una giornalista televisiva che conduce su Al-Jazeera un programma satirico”. Khandaqji ha iniziato a comporre “Una maschera color del cielo” tra il maggio e il novembre del 2021, per poi essere pubblicato in Libano nel 2023. E come esce una lettera, un libro, un contenuto scritto da una prigione israeliana? Ce lo dice Bassem stesso, quando scrive di “parole nascoste tra le righe, scritte a matita con tratto molto leggero e una grafia minuscola”.
In questi giorni in cui una guerra tra Israele e Libano sembra sempre più probabile, Gaza è distrutta e la sua terra gronda sangue, la Cisgiordania occupata è teatro quotidiano di violenza, espropri e umiliazioni, la voce di Bassem, insieme a quella degli altri 9900 prigionieri politici, che si trovano attualmente detenuti delle carceri israeliane, porta un messaggio oltre le sbarre e i confini: “L’archeologia è politica, gli israeliani hanno trasformato la Torah in una guida turistica archeologica, o no?”, ma la Palestina è lì, è la pelle dietro la maschera, è l’identità di una nazione e di un popolo che non ha nessuna intenzione di arrendersi.