I ministri del Governo Meloni (e la premier stessa) accelerano sul nucleare, manifestando grande ottimismo sui tempi e dimenticando il problema delle scorie che non si sa dove stoccare. Quelle prodotte nell’era italiana nucleare, quelle che provengono da settori come industria e medicina e quelle che si produrrebbero se l’Italia scegliesse di nuovo la strada dell’energia dell’atomo, bocciata dai due referendum del 1987 e del 2011. Al forum Teha di Cernobbio del primo fine settimana di settembre, gli esponenti dell’esecutivo – dal ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin a quello delle Infrastrutture, Matteo Salvini – hanno manifestato il loro sostegno allo sviluppo della tecnologia e agli operatori del settore. “Non possiamo più dire di no” ha ribadito poi il leader del Carroccio. Concetto ripreso e avvalorato qualche giorno dopo dalla premier in persona, che ospite di Confindustria (e sollecitata dal presidente Orsini sull’opportunità atomica), ha parlato della “grande prospettiva di produrre, in un futuro non così lontano, energia pulita e illimitata dal nucleare da fusione”. Ma lontano dal lago di Como e dall’assemblea degli industriali si fatica ad avere informazioni sicure sull’unico progetto che certamente s’ha da fare: il deposito di scorie che nessuno vuole. Eppure una soluzione va trovata.

Tanto più che sul Governo Meloni pende una spada di Damocle: entro il 2025, l’Italia dovrebbe far rientrare le scorie spedite (a caro prezzo) nel Regno Unito e in Francia, attraverso un accordo del 2006. Eredità scomoda di cui non c’è traccia nelle esternazioni dei ministri. “Il nucleare è una presa in giro molto costosa, non solo perché non c’è ancora il deposito nazionale per le scorie, ma anche perché non è compatibile con i tempi della decarbonizzazione, ha dei costi assurdi rispetto alle rinnovabili (la cui producibilità in Italia è molto elevata soprattutto grazie al solare) e perché non si integra con un sistema elettrico che prevede un supporto importante delle Fer” commenta a ilfattoquotidiano.it Michele Governatori, responsabile del programma gas ed elettricità del think tank italiano Ecco.

Il settore chiede di accelerare. E Pichetto stringe i tempi – A Cernobbio, però, Edison, Ansaldo Nucleare e Teha Group hanno presentato lo studio “Il nuovo nucleare in Italia per i cittadini e le imprese: il ruolo per la decarbonizzazione, la sicurezza energetica e la competitività”. Secondo l’analisi, considerando anche benefici indiretti e indotti, tra 2030 e 2050 il nucleare potrebbe abilitare un potenziale impatto economico complessivo di 50,3 miliardi di euro, circa il 2,5% del Pil del 2023, generando circa 117mila posti di lavoro. La proposta è quella di “installare 20 impianti Small modular reactor (Smr) e Advanced modular reactor (Amr), per soddisfare circa il 10% della domanda elettrica al 2050″. Per Nicola Monti, amministratore delegato di Edison, il nucleare rappresenta una “risorsa preziosa per raggiungere gli obiettivi di transizione energetica” e “una vera e propria occasione di rilancio industriale per il Paese”. A patto che si faccia “presto”. E di tempi ha parlato il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin. A iniziare da quelli per ridisegnare un quadro legislativo favorevole dopo i referendum. Anche perché, ha spiegato, mentre i cittadini si sono espressi su tecnologie di prima e seconda generazione, il governo pensa a Smr e Amr. Ecco la road map: entro fine anno il giurista Giovanni Guzzetta e il suo team dovrebbero consegnare l’analisi “su ciò che bisognerà introdurre come norma primaria” da trasformare in disegno di legge e approvare entro il 2025, Parlamento permettendo. Nel frattempo, il ministro del made in Italy, Adolfo Urso ha già spiegato che, nei prossimi mesi, annuncerà “la realizzazione di una newco italiana, con partnership tecnologica straniera, per produrre a breve i reattori di terza generazione”. Enel e Ansaldo sono in prima fila. Andrà chiarito, però, di che si occuperà la newco, dato che i reattori di terza generazione non sono esattamente quelli di cui parla Pichetto Fratin, ma quelli che molto sono costati in termini di tempo e soldi a diversi paesi Ue.

Quale convenienza – A proposito dei tempi, quelli del nucleare non sono compatibili con gli obiettivi al 2030 e questa decade è fondamentale, spiegano gli scienziati di tutto il mondo, per raggiungere i target dell’accordo di Parigi restando sotto 1,5° di riscaldamento globale. Si potrebbe procedere più celermente per reattori più piccoli, ma c’è da chiedersi se il gioco valga la candela. Di fatto, nel 2023 in Unione Europea le rinnovabili hanno prodotto il 44,7% dell’elettricità, quasi il doppio del nucleare (a quota 22,8%). Per quanto riguarda l’Italia, lo stesso Piano nazionale integrato energia e clima prevede che, solo al 2050, il nucleare possa arrivare all’11-22% della domanda nazionale di elettricità. “Ma chi lo dice che in Italia è necessaria una quota di nucleare nel mix elettrico? Ogni Paese, anche in Europa, ha diverse esigenze e potenzialità e la nostra forza è il solare” commenta Michele Governatori, responsabile del programma gas ed elettricità del think tank Ecco. E aggiunge: “Non si capisce perché dovrebbero fare tutti la stessa cosa, se non c’è convenienza per il nostro Paese”.

Al netto di tempi e costi, perché non conviene il nucleare? “Un sistema elettrico con fonti rinnovabili già integrate – sottolinea – ha bisogno di essere complementato con fonti modulabili (e non a produzione costante, come è quella che deriva dal nucleare)”. Già oggi, in alcuni momenti dell’anno, le rinnovabili sono sufficienti a tutta la produzione. Accadrà sempre più spesso con la diffusione delle Fer. “Se avessimo il nucleare dovremmo spegnerlo in alcune ore e questa è un’operazione costosissima, perché si tratta di una tecnologia con costi fissi tali che deve funzionare al massimo delle potenzialità per essere conveniente. Lo sa bene la Spagna – racconta – che, durante la scorsa primavera, ha dovuto spegnere gli impianti perché c’era molto vento. L’energia era talmente economica, che non conveniva pagare neppure i costi del combustibile, relativamente bassi nell’ambito dei costi complessivi del nucleare”. La produzione istantanea del nucleare, dunque, non è modulabile “per motivi sia economici che tecnologici” e questo lo rende inadatto ad affiancare le rinnovabili. “Le prospettive che vengono date sono al limite della presa in giro” aggiunge Governatori, citando i reattori modulari piccoli che dovrebbero servire i vari distretti industriali. “Immaginiamo un reattore da 200 megawatt che serve un distretto calzaturiero-artigiano, un altro per la meccanica di precisione, un altro ancora per il distretto tessile di Prato. È ridicolo e impensabile riuscire ad attualizzare decine di impianti relativamente piccoli. Ci sono molti interessi in gioco – continua – ma la cosa più probabile è che verranno spesi solo dei soldi senza realizzare nemmeno un impianto, almeno nei prossimi 15/20 anni”.

Il nodo irrisolto del deposito – Dovrebbe essere realizzato, invece, il deposito nazionale, come sottolinea il vicepresidente della Camera, Sergio Costa (M5S): “Il ministro Pichetto Fratin dice che entro fine anno ci siamo, Salvini continua a ribadire che secondo lui l’Italia voterebbe sì a un referendum sul nucleare. Nel frattempo nessuno ci dice: dove si mettono le scorie?”. Il deposito dovrebbe ospitare 78mila metri cubi di scorie a bassa e media intensità e, per un periodo di tempo, altri 17mila metri cubi di rifiuti ad attività medio-alta e alta, una buona parte dei quali – quelli che provengono dalle centrali in dismissione – sono stoccate all’estero. A riguardo, il governo deve risolvere una questione: entro il 2025 dovrebbe far rientrare 1.680 tonnellate di combustibile esaurito dal Regno Unito e 235 tonnellate dalla Francia. Ma il deposito non c’è e non si sa neppure dove sorgerà. Nei giorni scorsi, Gian Luca Artizzu, amministratore delegato di Sogin, società pubblica che si occupa dello smantellamento degli impianti nucleari, è intervenuto sull’autocandidatura poi ritirata di Trino (Vercelli), comune non inserito nella mappa delle 51 aree idonee. Pur chiarendo di non aver mai voluto riaprire l’opzione, l’ad ha ribadito che il dietrofront contribuirà, insieme ad altri fattori, a rendere tortuoso l’iter per realizzare il deposito. Nel frattempo, è prevista per il 25 settembre la manifestazione organizzata dalla sezione di Canino (Viterbo) del comitato ‘No scorie nella Tuscia’, area nella quale sono una ventina i siti individuati dalla Cnai (Carta nazionale delle aree idonee per il deposito nazionale delle scorie radioattive). Canino si trova a 19 chilometri da Montalto di Castro, dove sorge una vecchia centrale nucleare ed è tra i luoghi indicati, ma il territorio è vocato all’agricoltura e alla produzione di olio d’oliva di pregio e il comitato ha manifestato le sue preoccupazioni, ancor di più dopo il terremoto di magnitudo 3.0 che ha colpito il comune ad agosto scorso. E su questo il governo sa di non poter accelerare.

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