Giustizia & Impunità

Processo Open Arms, le parti civili chiedono oltre un milione di euro a Matteo Salvini. In aula i racconti dei sopravvissuti

“Il mediterraneo è ormai luogo di morte. I nostri fondali sono pieni di cadaveri. Se tanti bambini, donne e uomini oggi sono in vita è anche grazie a Open Arms“, così ha parlato Arturo Salerni, avvocato dell’Ong durante l’udienza del processo a carico di Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio. Dopo la requisitoria della procura, che lo scorso sabato 14 settembre ha chiesto la condanna a 6 anni per il leader della Lega, è stata oggi la volta dei difensori di parte civile, una ventina in tutto (tra cui anche Arci, Legambiente, Emergency e il comune spagnolo di Barcellona) costituitesi contro il vicepremier. Alla Corte chiedono di riconoscere anche la responsabilità civile, oltre a quella penale, per Matteo Salvini: la richiesta complessiva è di oltre un milione di euro come risarcimento danni nei confronti dei propri assistiti, sia singoli naufraghi sia associazioni e organizzazioni non governative.

E proprio oggi in aula si è presentato Musa, uno dei migranti che restò a bordo della Open Arms nell’agosto del 2019. La cui storia è stata ripercorsa oggi dalla sua legale, Serena Romano. Partendo dal suo sogno: quello di venire in Italia a giocare a calcio. “Ma nel carcere libico in cui era stato rinchiuso gli avevano inferto colpi di bastone alle piante dei piedi fino a rompergliele. A 12 anni aveva lasciato il Gambia assieme allo zio, poi morto in mare durante un tentativo di fuga dalla Libia per raggiungere l’Europa. Mentre Musa è rimasto per tre anni rinchiuso nel carcere libico. Aveva solo 15 anni quando il primo agosto da un barchino di 12 metri che imbarcava acqua fu portato a bordo di Open Arms. Assieme a Musa, c’erano 54 persone: 16 donne, di cui due incinte, 20 minori, due neonati. Questo per definire il carico umano che per l’imputato costituiva fonte di pericolo per i nostri confini nazionali”. Un minore non accompagnato torturato per anni: è uno dei tanti casi che compongono la storia di quell’estate, quando la nave della Ong con tre soccorsi in mare salvò 147 persone ma fu bloccata in mare dal divieto di accesso in acque italiane firmato da Matteo Salvini. Una delle tantissime storie di tortura ripercorse nell’udienza di oggi all’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo.

“La nostra solidarietà ai pm che in questi giorni hanno subito minacce per avere chiesto la condanna del vicepremier”, ha sottolineato Fabio Lanfranca avvocato di Mediterranea saving humans, che in aula ha anche ricordato come nei giorni scorsi la Mare Jonio, la nave della Ong italiana, ha avuto dei controlli da parte di ispettori della Guardia costiera di Trapani, subendo il fermo amministrativo. Secondo il legale della Ong è stato un “atto vessatorio”: “Dopo 10 ore di ispezione è stato ordinato alla nave di dismettere tutti i mezzi di soccorso presenti a bordo. Si tratta di un provvedimento inedito, vessatorio, oltre che illegittimo, che verrà impugnato nelle sedi opportune”.

Ma il giorno delle parti civili diventa soprattutto il giorno dei racconti dei migranti soccorsi quell’estate da Open Arms. “I miei assistiti, migrati dalla Nigeria, ormai vivono in Francia e non hanno voluto tornare in Italia. Un rifiuto categorico anche perché non pensavano di potere essere creduti: sono stati d’altronde messi in discussione dall’imputato come malati, come naufraghi, perfino sono stati messi in dubbio i loro dati anagrafici. Quell’estate Salvini in video parlava di finti malati e finti minori”, ha sottolineato l’avvocata Silvia Calderoni.

Nell’agosto del 2019 sulla nave della Ong c’era anche Berna Tedvos Teklay, 19 anni: “I tatuaggi di Berna hanno svelato la sua appartenenza religiosa al cristianesimo, motivo per i suoi carcerieri in Libia per picchiarlo e torturarlo, mentre la moglie veniva portata via e violentata”, ha raccontato, invece Lanfranca. “Si è più volte sostenuto che ci sia stato un atto politico, ma così non è, non lo dice il pm di questo processo ma la Corte Suprema di Cassazione quando sentenziò che il rilascio del porto sicuro è un atto amministrativo e in quanto tale suscettibile di sindacato da parte di qualsiasi tribunale”, ha puntualizzato anche Michele Calantropo, legale di Arci. “I minori dovevano sbarcare il 14 agosto 2019 e non il 17 agosto, perché la legge Zampa parla di ‘assoluto divieto di respingimento per i minori’. Invece non è stato fatto per tre giorni”, ha sottolineato Armando Sorrentino, legale di parte civile dell’associazione giuristi italiani.

“Open Arms ha in questi anni salvato decine di migliaia di uomini, donne e bambini ma in quella occasione non solo non ha avuto supporto, come prevede il diritto internazionale e la Convenzione Sar, ma addirittura si è trovata di fronte a un muro”, ha indicato Salerni. “Se molti sono salvi è anche grazia a Open Arms”, ha ribadito il legale. Tra questi c’era appunto anche Musa, portato a bordo della nave della Ong spagnola l’1 agosto quando a soli 15 anni si trovava senza nessun parente a bordo di un barchino che imbarcava acqua a prua, un ragazzo che secondo le relazioni degli psicologi dopo essere rimasto dall’1 al 17 agosto a bordo della nave della Ong spagnola, una volta sbarcato, era come assente, perso. Oggi è in aula, gli occhi vivi, il viso disteso: “Sì, adesso ho paura del mare. Preferisco non vederlo. In acqua è morto mio zio e potevo morire anch’io. Ma sono vivo, lavoro qui in Italia e vorrei poter studiare: sono grato alla Sicilia e all’Italia”, ha detto Musa. Il processo continuerà il prossimo 18 ottobre quando sarà la volta dell’arringa della legale di Salvini, Giulia Bongiorno.