C’è uno schema ricorrente nelle teorie del complotto? Sarebbe possibile costruirne una a tavolino imparando i trucchi e le tecniche per ingannare le masse? Nel suo nuovo libro “Manuale per fabbricare una teoria del complotto“, in uscita il 27 settembre (People editore, 15 euro), Jacopo Di Miceli, curatore di “Osservatorio sul complottismo”, un progetto per l’analisi storica e politica sulle teorie del complotto, immagina di vestire i panni del disinformatore di professione e di esercitarsi nella creazione di una di queste teorie. Un modo non solo per svelarne i segreti, ma per riconoscerle e combatterle. Ilfattoquotidiano.it ne pubblica in anteprima un estratto:

Non sempre le teorie del complotto sono uno strumento reazionario di diversione in mano agli agenti del caos. Secondo la politologa americana Jodi Dean, persino i racconti dei rapimenti alieni possono costituire “un appropriato veicolo per la contestazione politica”, perché sfiderebbero un “consenso sulla realtà” troppo spesso fondato sull’esclusione delle opinioni non conformi. Negli anni Cinquanta e Sessanta – chiarisce Dean –, gli ufologi, proprio perché non incasellabili nelle categorie della razionalità politica, erano gli unici ad avere la libertà di criticare e di porre dei limiti agli eccessi del governo e dell’esercito senza incorrere nell’accusa di comunismo.

Dalla corrispondenza dell’epoca, emerge infatti come i rappresentanti eletti, tra cui il futuro presidente Gerald Ford, fossero preoccupati di dare risposte argomentate ai cittadini per non compromettere la loro fiducia nelle istituzioni e nella scienza. Questa funzione di resistenza e vigilantismo democratico è ancora più evidente se pensiamo alla manifestazione del dissenso nei regimi autoritari. Il sospetto che i servizi segreti russi (FSB) fossero i responsabili della serie di attentati dinamitardi che, nel 1999, rasero al suolo tre condomini in varie città del Paese, tra cui la capitale Mosca, provocando la morte di oltre trecento persone, è da sempre un collante politico degli oppositori di Vladimir Putin. Le bombe, attribuite dalle autorità ai combattenti islamisti del separatismo ceceno, seminarono il panico tra la popolazione, che la sera si addormentava nelle proprie case con l’angoscia di essere il bersaglio della prossima esplosione. Dal terrore affiorò la figura risoluta di Putin, allora un oscuro uomo dell’intelligence inaspettatamente individuato dal presidente Boris Eltsin come primo ministro e potenziale successore: nel giro di pochi giorni, per restaurare l’onore e il prestigio perduti, la Russia lanciò un’intensa campagna di bombardamenti e una poderosa invasione di terra della Cecenia. La guerra fece guadagnare immensa popolarità allo sconosciuto Putin che, dopo le dimissioni di Eltsin, divenne presidente ad interim e in seguito, nel marzo del 2000, fu eletto presidente con largo vantaggio sugli avversari.Negli anni successivi, pur in assenza di prove definitive, la teoria del complotto ha assunto verosimiglianza tra i critici del Cremlino, sia perché i metodi autoritari e violenti di Putin hanno retrospettivamente reso plausibile la strategia della tensione, sia perché diversi sostenitori della colpevolezza dell’FSB e di un’indagine indipendente sugli attentati sono stati assassinati, come la giornalista Anna Politkovskaja e l’ex spia del KGB Alexander Litvinenko.

Eppure, la ricostruzione dei retroscena delle bombe ha subìto più contestazioni. Il 30 settembre 1999, l’analista della BBC Thomas de Waal la riferiva come una nota di colore degna di poca importanza, curiosamente proprio attingendo al luogo comune delle teorie del complotto irrimediabilmente false: «Le teorie del complotto fanno parte della dieta di base della politica moscovita. […] Per lo meno [questo] dice molto della febbrile atmosfera politica in Russia, che porta alcuni a prendere seriamente queste teorie». Di recente, invece, una relazione ben più articolata è stata presentata da un analista del Dipartimento di Stato americano, Robert Otto, che, alla luce di nuovi indizi, ha riesaminato il caso suggerendo una pista provocatoria. Secondo Otto, non ci sarebbero né Putin né i servizi segreti dietro le bombe, ma l’allora ministro dell’interno Vladimir Rushailo e l’oligarca Boris Berezovsky, che puntavano a indebolire l’alleanza formata dall’ex premier Primakov e dal sindaco di Mosca Luzhkov e a introdurre lo stato di emergenza, così da rinviare le elezioni. Nessuno di loro, però, aveva previsto che Eltsin si sarebbe dimesso, su consiglio dell’oligarca concorrente Roman Abramovich, permettendo in ultima istanza a Putin di ottenere il palcoscenico e i poteri della presidenza, tra cui quello di anticipare la data delle elezioni. Caduto in disgrazia, Berezovsky fuggì in esilio in Gran Bretagna, da dove cominciò a gridare al complotto dell’FSB e a finanziare generosamente la crescente comunità di dissidenti russi a Londra, tra cui lo stesso Litvinenko. All’ex spia l’uomo d’affari elargiva, tra i vari emolumenti, uno stipendio di circa seimila dollari al mese, comprensivo dell’incarico di redigere un libro d’accusa a Putin.
L’ipotesi della false flag ha insomma acquisito autorevolezza non tanto per la sua verità epistemica, che probabilmente non si conoscerà mai, ma in virtù del suo statuto simbolico: è la denuncia politica formale dell’atto fondativo della dittatura di Vladimir Putin.

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