La storia della messa in macchina, o avviamento in stampa, del primo numero del Fatto Quotidiano, per come l’ho vissuta io, si svolge il 22 settembre 2009 in una sede “due camere e cucina” (cit. Padellaro) di via Orazio 10, quartiere Prati di Roma. Un gruppo di persone, quasi tutti amici, mette insieme un giornale composto da una “sporca dozzina” di giornalisti, come li definì Carlo Freccero, sotto la direzione di Antonio Padellaro e con firme di punta come Marco Travaglio e Peter Gomez. La linea editoriale annunciata è la Costituzione. Intorno a loro, a completare la compagine dei giornalisti azionisti – oltre ad Antonio, Marco, Peter anche Marco Lillo – un altro gruppetto di imprenditori azionisti, fra cui il sottoscritto con la casa editrice Aliberti, Cinzia Monteverdi ora presidente e ad, Luca D’Aprile con la società marchigiana Edima (da subito anche consigliere in CDA, dove siede ancora oggi) e Lorenzo Fazio con Chiarelettere. Infine, l’ex magistrato Bruno Tinti, amico scomparso nel 2021.
Il mio ingresso nel giornale, come capita spesso nella vita, è nato per caso. Siamo a maggio 2009. Incontro Marco Travaglio al ristorante “La Pista”, all’ultimo piano del Lingotto, in compagnia di Paolo Flores d’Arcais e Beppino Englaro al Salone del Libro di Torino. Io mi trovavo a cena con Paolo e Sabina Guzzanti dopo una presentazione, se non ricordo male, del libro Mignottocrazia di Paolo che come editore avevo da poco pubblicato. Travaglio, che allora conoscevo solo telefonicamente, viene al tavolo per salutare Sabina ed è l’occasione per scambiare due battute sul giornale che lui e Padellaro stavano fondando: “Se ti interessa approfondire e hai un po’ di soldi da investire – mi dirà poi – ti metto in contatto con il nostro amministratore Giorgio Poidomani”. E così, nei giorni successivi, Poidomani mi diede tutti i ragguagli, trasmettendomi il piano editoriale e finanziario della neocostituita Società Editoriale Il Fatto Spa.
Era rimasta libera da sottoscrivere una sola quota del capitale pari agli altri imprenditori azionisti: “Ci pensi bene e non si faccia illusioni: è una partita difficilissima”, mi disse Poidomani con un tono grave. Ci pensai un po’, ma non troppo.
Ero stato sconsigliato caldamente da tutti gli amici giornalisti e imprenditori editoriali (tranne due: Edmondo Berselli e Piero Celli, che erano convinti avrebbe funzionato al 100%); ma continuava a frullarmi nella testa quella celebre frase attribuita ad Arthur Miller: “Un buon giornale è una nazione che parla a sé stessa”. Mi inorgogliva l’idea, io che non avevo mai frequentato prima una redazione giornalistica. Così accettai, sentendomi un po’ come in Tutti gli uomini del presidente. E soprattutto infischiandomene delle sibille cumane che vaticinavano: “Fondare un nuovo quotidiano? Impossibile. Perderai tutti i soldi entro tre mesi”. Mia moglie, che come quella di Marco Lillo e Luca Telese (altra firma della prima ora) era su una posizione di prudenza, alla fine dice: “Se va tutto male pazienza: avrai partecipato a una causa giusta. Un giorno lo potrai raccontare”.
Fu così che mi ritrovai cofondatore del Fatto Quotidiano. Invece, andò tutto in modo stupefacente già da questo primo numero iconico che trovate ristampato in edicola oggi allegato al giornale: 100.000 copie esaurite già alle 08:00 del mattino e una tiratura raddoppiata il secondo giorno di 200.000 copie. Ma la storia del successo del Fatto è storia nota, studiata e celebrata.
Mentre ecco il retroscena della sera della stampa del primo numero. Ricordo la corsa dal quartiere Prati verso la tipografia con l’impaginato appena chiuso dal direttore. La formazione sull’auto di Daniele Panetta, il nostro direttore generale, era composta da Giorgio Poidomani, Cinzia Monteverdi, il sottoscritto e il tecnico del sistema editoriale, Dario. Tutto per seguire direttamente in loco il regolare avviamento del numero 1. Stretti sul suv nero di seconda mano di Panetta, ci fiondiamo a tutto gas verso la tipografia. Siamo terribilmente in ritardo. Se non arriviamo in tempo, salta l’uscita del primo numero del nostro giornale: siamo piccoli, dobbiamo stampare per primi – quasi all’ora dell’aperitivo – solo i giornaloni possono stampare più tardi, all’ultimo turno di stampa, fin quasi mezzanotte.
Arriviamo appena in tempo nello stabilimento tipografico di Tor Cervara, con la macchina che sgomma, ma siamo a filo. Fermi tutti! Una pagina non si apre. Panico. Per fortuna c’è Dario. In qualche modo risolviamo e finalmente siamo in stampa. Le rotative cominciano a marciare: enormi bobine di carta, rulli inchiostratori, cilindri velocissimi e carrelli che cominciano a sputare fuori i primi numeri freschissimi di stampa. Ci sentiamo come in un film americano: “È la stampa, bellezza”. È andato. Ora di corsa con le prime copie stampate verso la redazione “due camere e cucina” di via Orazio.
Entriamo trafelati, tutti i giornalisti ci stanno aspettando bottiglie alla mano: distribuiamo le copie appena stampate, è grande festa. Ci scambiamo le prime pagine firmate da tutti del primo numero. La mia l’ho messa in quadro nel mio studio.
Sono passati 15 anni volando, siamo cresciuti, anche cambiati, ma siamo ancora qui grazie prima di tutto ai nostri lettori che sono stati sempre il nostro sostegno, i nostri unici e soli padroni.