C’è un uomo irrimediabilmente solo nell’aula della corte d’assise di Venezia, l’ingegnere Gino Cecchettin, arrivato da Vigonovo ad assistere al rito giudiziario per la morte violenta della figlia Giulia di 22 anni. Usa parole misurate, perfino gentili, e dice: “Non voglio vendette, non ho niente da dire a Filippo, il processo posso dire che non mi interessa, per me tutto è finito l’11 novembre di un anno fa”. Attorno a lui si muovono i giudici, gli avvocati, il pubblico ministero Andrea Petroni, i cancellieri. Gino Cecchettin si porta dentro un dolore eterno, lo si percepisce – a tratti – dallo sguardo vuoto e inconsolabile, mentre le parole del diritto si mescolano all’emozione per un caso che ha sconvolto l’Italia. Ha voluto che gli altri due figli, Elena e Davide, restassero a casa: “Stamattina non abbiamo affrontato la questione del processo, li ho salutati come sempre”.
La scelta di Turetta: “Interrogatemi”
C’è un giovane solo in una cella del carcere veronese del Campone, Filippo Turetta, assassino a causa di un’insana voglia di possesso. Ha deciso di non andare a Venezia, ha evitato il clamore, l’assalto dei teleoperatori, curiosità e occhi indiscreti. Eppure non si sottrarrà al dovere di rendere conto per ciò che ha fatto: 75 coltellate con cui ha ucciso l’ex fidanzata, incapace di accettare che lei non lo voleva più. È andato all’ufficio matricola e ha depositato una richiesta formale per i giudici, spiegando di rinunciare alla prima comparizione, ma chiedendo di essere interrogato. “È pronto ad assumersi la responsabilità di fronte alla corte d’assise, alla comunità e alle persone offese” spiega il difensore Giovanni Caruso. “Ha capito che deve cominciare subito a espiare la pena per il fatto gravissimo che ha commesso. La corte deciderà la pena equa, in primo grado, se poi si prospetteranno strade alternative, una eventuale riduzione o una forma di giustizia riparatoria, lo si vedrà in seguito”.
Un ergastolo (quasi) scontato
Con questa presa di posizione Turetta ha anche accettato di essere giudicato allo stato degli atti, ovvero sulla base di tutto ciò che è contenuto nel fascicolo del pubblico ministero. Non intende contestarlo e ha dato l’assenso a un giudizio abbreviato a-tecnico: si svolgerà nell’arco di cinque udienze (sentenza il 3 dicembre), senza la esibizione in contraddittorio delle prove (a cui rinuncia), con una ammissione esplicita della colpa, ma senza la possibilità di beneficiare della riduzione di pena prevista per i riti alternativi. Nel suo futuro c’è una condanna all’ergastolo, se i giudici riterranno le attenuanti generiche (è incensurato) non prevalenti sulle aggravanti di aver ucciso con premeditazione, con efferatezza, a conclusione di uno stalking reiterato e con il corollario tragico di un’aggressione e di un’agonia durate per qualche decina di minuti. In alternativa potrebbe esserci una pena di trent’anni, in ogni caso – visto che è ancora giovane – può sperare di tornare in libertà non ancora cinquantenne.
La “segreta speranza” di Turetta
Il percorso giudiziario semplificato è stato formalizzato anche perché pubblici e parti civili non si sono opposti al transito dei documenti contenuti in sei faldoni del fascicolo dell’accusa, in quello assolutamente scarno dei giudici del dibattimento. La difesa di Turetta ha una segreta speranza, che la disponibilità dimostrata per rendere veloce e agile il dibattimento possa tradursi in un apprezzamento dei giudici, tale da leggere con più benevolenza la sua figura difficilmente difendibile e la concessione di eventuali attenuanti. Per capire quanto la mossa influirà sull’entità della condanna lo si saprà dopo la deposizione dell’imputato, prevista per il 25 e 28 ottobre. Il 25 e 26 novembre la discussione. Il 3 dicembre la camera di consiglio finale con la lettura della sentenza.
Fuori le associazioni a difesa delle donne
Il processo Turetta si è in qualche modo depotenziato per quanto riguarda una possibile spettacolarizzazione. Cinque associazioni che operano a difesa delle donne da ogni forma di violenza non sono state accettate come parti civili. A cominciare da Penelope Italia, per mancanza di una deliberazione dell’organo direttivo che la governa e per la non stretta riferibilità al territorio (provincia di Venezia) dove Giulia Cecchettin è stata rapita (Vigonovo, luogo di residenza) e uccisa (nell’auto di Turetta, zona industriale di Fossò). La difesa dell’imputato, con le avvocatesse Monica Cornaviera e Giulia Pittarello Tringanelli, ha eccepito la mancanza del presupposto costituito dalla lesione di un interesse tutelato dalle pur meritorie associazioni. Già il procuratore Bruno Cherchi aveva avvisato: “Il processo viene fatto per sanzionare le responsabilità personali, non deve giudicare il femminicidio o i fenomeni sociali. Mi auguro che il clamore mediatico non abbia influito sulla scelta dell’imputato di non presentarsi alla prima udienza”.
Le parole del padre Gino
In ogni caso, la morte violenta di Giulia ha colpito così profondamente l’opinione pubblica da trasformare il processo in un evento-simbolo. Papà Gino ha trovato la forza di parlare della fondazione che sta nascendo in ricordo della figlia. “Stiamo lavorando per creare una struttura tecnica e valoriale. Con l’aiuto di docenti universitari stiamo elaborando uno studio su come capire la violenza, prevenirla e difendersi da essa. Speriamo di inaugurare le attività l’11 novembre, il giorno in cui Giulia è stata uccisa”. Un messaggio ai giovani, pensando a quello che ha fatto Turetta? “Devono imparare ad accettare i no, le sconfitte, e il fatto che la vita non finisce anche se non si raggiunge una meta prefissata”. Conferma che i rapporti con i genitori di Turetta non si sono interrotti, nemmeno dopo la diffusione dei filmati in cui il papà dell’omicida reo-confesso, in carcere, cercava di spronarlo a non abbattersi. “Io non sono animato da rancore, certe parole vanno contestualizzate. Chi può giudicare che cosa sta attraversando il papà di Filippo?”.