Incontrarsi per mare con un antropologo, scrittore, viaggiatore, reduce da speranze e delusioni politiche, ma ancora sufficientemente vivo da non aver perduto la sua umanità… è una delle cose migliori che possano capitare. Nel “mondo storto” i filosofi, i ricercatori umanistici, sembrano specie in estinzione, che andrebbero protette in qualche modo. Molta parte delle idee e delle intuizioni di cui abbiamo estremo bisogno, vengono da loro.

Con Federico ci incontriamo a Kythira, a sud del Peloponneso, e navighiamo per una settimana tra Golfo Laconico e Messenico (Peloponneso) concedendoci l’atteggiamento di flaneurs nautici lenti, occasionali, liberi di pensare. Dovremmo pianificare i nostri dialoghi a bordo, a dire il vero, fare un’intervista, scrivere brani. Questo prevede l’attività di hosting culturale di Mediterranea (www.progettomediterranea.com). Ma non serve. Le parole scorrono subito libere, sincere, dirette.

Federico ha conosciuto il periodo del grande impegno politico e sociale, poi il degrado dell’amministrazione capitolina. Il “Modello Buzzi” (inchiesta “Mondo di Mezzo”) lo ha visto nascere sotto i suoi occhi, seguendo le cooperative sociali, quando lavorava nella Giunta Veltroni. Poi lo ha visto da fuori, quando si è adattato ai nuovi padroni di Roma (Giunta Alemanno) fino ai nuovi protagonisti come Carminati. Ne ha scritto in almeno due libri, un saggio e un romanzo. Poi, come gesto di salvaguardia e di repulsione, per non morire e per salvarsi l’anima, ha rinunciato a diritti sindacali e concorsi vinti ed è partito per vivere anni all’estero, in Libano, poi in Etiopia, poi in Senegal. Ha addosso qualche cicatrice di troppo, come ogni uomo che sia vissuto davvero. Anche per questo mi sta subito simpatico: oltre che delle idee io ho sempre bisogno della qualità di chi le riferisce. Della sua realtà esistenziale, vorrei dire etica.

“È in corso un etnocidio. Lo perpetra il turismo di massa, che non ha solo un impatto antropico devastante sui territori fragili come le isole, le coste del Mediterraneo. Le conseguenze dell’impatto ambientale quasi sempre si possono curare, quelle sulle comunità no”. Federico Bonadonna spiega, da antropologo, quello che succede quando gli equilibri sofisticati, fragili, antichi di una comunità di persone vengono travolti dall’ondata del turismo smodato, che porta capitali improvvisi ma impone tempi, modi, luoghi della relazione. “Una piccola comunità, come quelle che costituiscono la stragrande maggioranza degli insediamenti mediterranei, soprattutto sulle isole, non è pronta e non può essere capace di rimanere se stessa di fronte alla droga contemporanea del turismo”. Droga per chi la assume e per chi deve tradursi in spacciatore turistico. “Dopo il Covid la maggioranza delle persone ha riappreso sulla propria pelle che in questa epoca, contrariamente alla vulgata imperante, si può ancora morire. E il tempo che pensavi ci fosse per vivere, magari, non c’è. Ne è scaturito un corri-corri verso il fare, partire, viaggiare, per recuperare il tempo perduto, per concedersi tutto e subito. Un esercito di persone si è così messo in moto, e rischia ora di travolgere tutto. Impossibile riuscire a gestire un tale tsunami antropico, salvo capendo che è in corso e che l’unica via per le comunità è scegliere il proprio destino”.

A farne le spese è tutto quel che è rimasto del Mediterraneo, sempre più in vendita, sempre più in affitto breve e fulmineo, reso sempre più disponibile da cittadini incapaci di dire no, o almeno di preservare le loro vite, i ruoli sociali, gli equilibri acquisiti nel tempo lungo della vita. “Perché mai coltivatori dovrebbero continuare a fare fatica quando possono fare soldi con i turisti facilmente? Perché un pescatore dovrebbe continuare a rappresentare un segmento lavorativo dignitoso e centrale della società mediterranea, quando può trasformarsi in operatore turistico? Perché i villaggi dovrebbero continuare a essere abitati e vissuti quando le case possono rendere soldi con i turisti? Solo che così i villaggi si svuotano, diventano dei giganteschi B&B a cielo aperto, i negozianti e gli artigiani diventano solo fornitori di merci per turisti, non più soggetti di società resilienti. Se come è successo questa estate il sindaco di un’isola greca arriva a diramare un’ordinanza in cui chiede ai suoi cittadini di non uscire per non infastidire il flusso dei turisti, come possiamo rimanere speranzosi nella sopravvivenza dell’ecosistema sociale del Mediterraneo?”. Isole e comunità costiere un tempo vive tutto l’anno, si svuotano dopo i tre mesi estivi, diventano cimiteri silenziosi senza più abitanti, tutti ormai trasferiti nelle grandi città a spendere i soldi guadagnati durante la stagione turistica.

Io che vivo in tutto il Mediterraneo da decenni non posso che confermare: un tempo a gennaio su tante isole, ma anche sulla costa, trovavi la vita quieta e semplice di piccole comunità ancora vive e attive. Ora quelle comunità rischiano di scomparire. Solo che ripristinare un danno ambientale è difficile ma possibile. Rigenerare una comunità no.

Sbarco da Mediterranea e da giorni di dialoghi con Federico Bonadonna con la sensazione che la minaccia all’ambiente non sia l’unico rischio e forse neppure il più tragico che stiamo fronteggiando in questa porzione di mondo. L’impraticabilità politica, sociale, bellica di molti Paesi che drenavano turisti (Tunisia, Turchia, Medio oriente, Egitto, Libia, Marocco) e il mostruoso innalzamento dei prezzi in Croazia da poco nell’Euro, rendono Spagna, Italia e Grecia le uniche mete accessibili per l’imponente flusso turistico annuale (350 milioni di unità all’anno nel Mediterraneo). E questa onda anomala non sta solo mettendo a serio rischio l’ecosistema, che forse abbiamo molti strumenti per proteggere o ripristinare dopo i danni. C’è qualcosa che rischia una distruzione molto peggiore. Si chiama “vita”. Quella che la brama di denaro della maggior parte di noi sottovaluta e non difende. E così finirà col distruggere.

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