La norma che ha abolito l’abuso d’ufficio arriverà davanti alla Consulta. Martedì il Tribunale di Firenze ha sollevato la prima questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge Nordio, entrata in vigore il 25 agosto, che ha cancellato da un giorno all’altro la fattispecie di reato dal nostro ordinamento. I giudici hanno accolto l’istanza dell’avvocato di parte civile Manlio Morcella nell’ambito del processo sulla faida dei Colaiacovo (la dinastia a capo della Colacem spa, una delle più importanti imprese italiane produttrici di cemento), in cui è imputata, tra gli altri, l’ex procuratrice aggiunta di Perugia Antonella Duchini. L’istanza dell’avvocato Morcella, ritenuta dai giudici “non manifestamente infondata” e “rilevante” nel giudizio in corso – i due requisiti necessari per interessare la Consulta – era stata presentata l’8 settembre scorso e ipotizza una violazione degli articoli 11 e 117 della Costituzione, che impongono all’Italia di rispettare gli obblighi di diritto internazionale.
“Violata la convenzione di Mérida” – Secondo il legale e i giudici, infatti, la cancellazione della fattispecie dal nostro ordinamento si pone in contrasto con l’articolo 19 della Convenzione Onu contro la corruzione, la cosiddetta Convenzione di Mérida del 2003, in base al quale “ciascuno Stato parte esamina l’adozione delle misure (…) necessarie per conferire il carattere di illecito penale al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per sè o per un’altra persona o entità”. Cioè proprio la condotta che fino a ieri costituiva abuso d’ufficio e ora, invece, è divenuta penalmente irrilevante. Nel corso della discussione in Parlamento del ddl (durata oltre un anno) la potenziale violazione della Convenzione era stata ampiamente segnalata da innumerevoli addetti ai lavori, che però la maggioranza ha scelto di non ascoltare.
L’obbligo di “non tornare indietro” – La memoria contesta la tesi di Nordio secondo cui il testo originale della Convenzione, usando l’espressione inglese shall consider adopting (“dovrebbe considerare di adottare”), ha posto agli Stati una semplice raccomandazione e non un obbligo: non è così – sostiene Morcella – perché, quando ha inteso introdurre una mera raccomandazione, la stessa Convenzione di Mérida ha utilizzato un verbo diverso, cioè may, “potere”. Quindi, in base al trattato, gli Stati che non prevedono il reato di abuso d’ufficio hanno “l’obbligo di considerare la sua introduzione”, mentre quelli che già lo contemplano hanno “un obbligo internazionale di stand still“, “restare fermi”, “in forza del quale il quadro normativo interno deve rimanere invariato. Com’è possibile”, si chiede allora l’avvocato, “che uno Stato aderente alla Convenzione, obbligato a considerare l’inserimento del reato di abuso in atti d’ufficio nel proprio ordinamento, possa risolversi per la sua abrogazione?”. Argomentazioni pienamente condivide dai giudici: “Lo Stato parte che, come l’Italia, abbia già introdotto la fattispecie prima dell’adesione alla Convenzione di Mérida (…) sarà tenuto a non abrogare la fattispecie già vigente, vieppiù senza la contestuale adozione di alcuna misura preventiva e/o repressiva-sanzionatoria caratterizzata da concreta ed effettiva dissuasività”, scrivono nell’ordinanza che trasmette gli atti del processo alla Consulta.
I giudici: “Vuoto di tutela penale” – Il Tribunale (presidente Paola Belsito, a latere Alessio Innocenti e Anna Aga Rossi) però va ancora oltre e ipotizza anche una violazione dell’articolo 97 della Costituzione, per “frustrazione dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione“. L’abolizione tout court del reato, si legge infatti, ha creato un “vuoto di tutela” non colmabile da altre fattispecie, capace di impedire “la repressione e la tutela sul piano penale non solo nelle ipotesi di violazione di legge intenzionalmente poste in essere dal pubblico ufficiale, ma addirittura nei casi di mancata astensione per conflitto di interessi o incompatibilità”. In questo modo, scrivono i magistrati, “il legislatore è intervenuto in modo pesante sul sistema dei reati contro la pubblica amministrazione, eliminando importanti presidi penali a tutela del buon andamento e dell’imparzialità senza adeguatamente considerare, però, gli effetti della parziale abolizione approvata nel 2020 (con la riforma del governo Conte II, ndr) e delle altre riforme nel frattempo entrate in vigore”.
“Effetto dirompente sugli abusi nella Pa” – L’abrogazione dell’abuso d’ufficio, avverte il collegio, avrà “effetti sistemici piuttosto gravi“: la norma, infatti, non puniva solo i soprusi dei “funzionari pubblici addetti all’amministrazione”, ma quelli di “tutti i pubblici ufficiali“, compresi magistrati e appartenenti alla polizia giudiziaria, “ai quali la legge attribuisce poteri rilevantissimi in grado di incidere pesantemente su diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti, in primis la libertà personale”. La scelta del governo, concludono i giudici, non è quindi un “legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore”, bensì “si prospetta come arbitraria”. E questo per due motivi: “Da un lato, non si è tenuto di conto che le ragioni poste a sostegno” dell’abolizione, tra cui la cosiddetta “paura della firma”, “erano di fatto venute meno in ragione delle recenti riforme”, in particolare quella del 2020 che ha ristretto al massimo il campo di applicazione della fattispecie. Dall’altro, “non appare adeguatamente ponderato (e men che meno contenuto o neutralizzato) l’effetto dirompente che può avere la riforma, per il venir meno dell’effetto general-preventivo”, cioè di deterrenza, “di una norma di chiusura che evitava il dilagare di condotte dolosamente arbitrarie e lasciava ai cittadini uno strumento attraverso cui ricorrere alla magistratura”.