di Carblogger
Fabbrica Italia è il nome del piano industriale con cui Sergio Marchionne nel 2010 promise investimenti e produzioni più che raddoppiate nel nostro paese in cinque anni. Era aprile e stavo lì ad ascoltarlo, insieme agli azionisti e a qualche collega. Scrissi di pani e pesci perché i conti non mi tornavano, la cosa mi costò qualche discussione accesa con dirigenti Fiat. Alla fine ebbi ragione, ma non ricordo nessuna soddisfazione. Come non ne ho adesso per lo zero risultato del piano dell’attuale governo per attrarre investimenti stranieri a casa nostra, documento di cui ho scritto sul numero di settembre di Quattroruote e ripreso sul sito.
Fabbrica Italia, nome a parte, è il centro dello scontro oggi fra il governo Meloni e Stellantis. O meglio: è la parte seria, quella che riguarda il come aumentare la produzione nel nostro paese e salvaguardare il più possibile posti di lavoro. Mentre sui mercati tira vento contrario, fase ciclica dopo la sbornia del post Covid. Quando tutti i costruttori hanno fatto soldi a palate aumentando a dismisura i prezzi delle auto che si producevano col contagocce grazie alla mancanza di chip. Autoridotti i costi, autoaumentati i profitti. Una manna (non per i consumatori).
Fabbrica Italia è l’anomalia del nostro paese, unico fra i grandi produttori d’Europa che non ospita costruttori stranieri. Stellantis è l’erede di quella Fiat della famiglia Agnelli e dei suoi dirigenti, da Vittorio Valletta a Cesare Romiti, che hanno impedito l’arrivo in Italia di un altro marchio, da Ford in giù. Carlos Tavares, ad di Stellantis, è rimasto sulla stessa linea del Piave, minacciando addirittura ritorsioni se oggi passasse lo straniero. Assurdo.
Fabbrica Italia fa parte del teatro dell’assurdo. Oggi il governo Meloni cerca investitori stranieri perché aprano delle linee di produzione di veicoli. Anche se è un governo di principio sovranista e ha il vicepremier Salvini che spara a zero sui cinesi, compresi quelli di Byd che pure a Milano vendono dentro Autotorino, gruppo guidato brillantemente da un caro amico della Lega. Il problema è che con i soldi in bocca si vedono in giro soltanto costruttori cinesi, a parte la bufala di Elon Musk per Tesla ai tempi del meloniano Atreju.
Fabbrica Italia? “A long-term partner for growth and diversification” hanno chiamato il piano al Mimit, il ministero del Made in Italy guidato da Adolfo Urso. Le aree incentivate – con l’approvazione dell’Unione europea – sono in Puglia, Campania e Calabria, ma questo non esclude che chi ha i soldi in bocca non venga portato a spasso per l’intero Belpaese, o vengano prospettate altre proposte. Così come mi è stato detto da una fonte seria (ma non ho potuto verificare) che a suo tempo Tavares abbia rifiutato un’offerta d’acquisto per la fabbrica di Grugliasco. Chiusa e in vendita con la sua capacità produttiva di massimo 60mila unità all’anno (poche, per un costruttore generalista), non allargabile e non incentivabile pubblicamente essendo di un privato (salvo accordi a livello politico di altro tipo).
Per la sua Fabbrica Italia, l’offerta del Mimit è basata su meccanismi complessi. Par di capire, giusto per iniziare delle trattative, che ci sono state ma finora senza esito. In ballo solo “greenfield”, cioè fabbriche nuove di zecca, e non “brownfield”, cioè vecchie riadattate come quella di Nissan in Spagna rilevata da Chery. Non è un dettaglio (mi è stato spiegato): un cinese cattivo potrebbe diventare un cinese buono agli occhi dell’opinione pubblica se recuperasse beni e persone di chi ha chiuso prima di lui. La Cina del resto è maestra nelle strategie di comunicazione, come insegna la Belt and Road Initiative (firmata dal governo Conte e abbandonata dal governo Meloni, che subito dopo però ha firmato un memorandum d’intesa con Pechino in cui ci sta anche l’auto elettrica).
Byd ha scelto “greenfield” in Ungheria e in Turchia e non in Italia, e si capisce perché. Se nel suo piano il Mimit in Calabria si vende come incentivo la presenza di tre università, sei startup e “international players” irrilevanti per l’auto come Baker Hughes o Hitachi, in Ungheria Byd trova un eco-sistema già operante con Audi, Mercedes o Siemens, in Turchia con Fiat, Renault, Toyota, Hyundai, Ford e altre società di camion e bus.
Dongfeng, ufficialmente in trattativa con il governo Meloni, ha appena fatto sapere che una sua eventuale Fabbrica Italia può attendere. Di mezzo non ci sono soltanto i nuovi dazi europei sull’import di auto elettriche cinesi a raffreddare gli animi. In agosto, Bloomberg ha scritto senza essere smentita che il governo Meloni ha posto a Dongfeng dei paletti sulla protezione dei dati se davvero vuole costruire auto in Italia. Tema sensibile, che non risulta tuttavia sia stato sollevato né dagli ungheresi né dai turchi con Byd.
Dongfeng è in mano statale così come Saic, altro costruttore cinese in cerca di un paio di fabbriche in Europa, dove con MG già vende il doppio di quanto vendono insieme Alfa Romeo, Lancia e DS di Stellantis. Il controllo pubblico sarebbe un buon motivo per non poter dire no al proprio governo, se un giorno Pechino ordinasse a uno dei due di riempire il vuoto del memorandum di Meloni.
Ma non credo sia così che passa lo straniero in un’Italia che, mentre cerca di attrarre investimenti dall’estero sull’auto e non solo, si fa bacchettare dal Financial Times per nuove regole in materia di capital markets in odore di protezionismo. O che appena mette in moto si dichiara contro, nell’ordine: cinesi, Green Deal e auto elettrica. Sì, quella da costruire in Fabbrica Italia.