C’erano due magistrati onorari tarantini tra le parti civili del processo alla gestione dell’Ilva da parte della famiglia Riva ed erano in servizio quando sono stati commessi i reati contestati ad alcuni degli imputati, quindi il giudice competente a decidere sulla vicenda è quello di Potenza. È questo il motivo per il quale la Corte d’assise d’appello di Taranto ha cancellato la sentenza di primo grado del processo Ambiente Svenduto e decretato l’invio di tutti gli atti al tribunale lucano – competente in caso di coinvolgimento di colleghi del distretto tarantino, brindisino e leccese – radendo al suolo la ricostruzione che aveva inchiodato proprietari e manager dell’acciaieria, oltre a diversi amministratori locali.

La vicenda – molto tecnica – è riassunta nelle 30 pagine di motivazioni con le quali la corte presieduta dal giudice Antonio Del Coco ha demolito le ragioni avanzate dai colleghi nelle precedenti fasi del processo, grazie alle quali il dibattimento si era svolto a Taranto. Allora come in questo caso, l’eccezione era stata sollevata da tre avvocati della difesa che contestavano la presenza di tre magistrati onorari tra le parti civili che avevano chiesto la costituzione di parte civile, oltre al fatto che alcuni membri della Corte d’assise risiedevano nel quartiere Borgo di Taranto, tra i più colpiti dalle emissioni velenose dell’Ilva. Una vicenda, quest’ultima, ritenuta infondata. A pesare, come si evince dalle motivazioni ed era stato anticipato da Ilfattoquotidiano.it, è stata invece la posizione dei due magistrati onorari, Martino Giacovelli e Alberto Cassetta, nomi svelati da La Gazzetta del Mezzogiorno.

Entrambi – fa notare la Corte d’assise d’appello – erano in servizio a Taranto al momento in cui è stato commesso il reato contestato ai Riva e ad altri imputati. Richiamando una sentenza della Corte costituzionale del 2013, Del Coco scrive ritiene “ragionevole la regola che dispone l’applicazione della disciplina ordinaria in materia di competenza nel caso di persone ormai prive di funzioni giudiziarie non in ogni caso ma soltanto al momento della commissione del fatto”. Di diverso avviso erano stati i colleghi del primo grado, che avevano ritenuto più importante il fatto che nel 2016, quando si erano costituiti, i due magistrati onorari avessero ormai cessato le loro funzioni nel distretto di Taranto, visto che entrambi avevano ‘smesso la toga’ l’anno precedente: “Contrariamente agli assunti della Corte di Assise, ciò che più conta è la sussistenza della qualifica soggettiva al momento del fatto, o successivamente ad esso nel momento in cui pende il procedimento, essendo irrilevanti i suoi mutamenti successivi”, si legge nelle motivazioni.

E i reati contestati vanno dal 1995 al 2013, anni in cui sia Giacovelli, giudice di pace tra il 1994 e il 2015, che Cassetta, componente esperto della sezione agraria del Tribunale di Taranto tra il 1981 e il 2015, erano pienamente in servizio. La norma, spiega la Corte, serve a “garantire, nella massima misura possibile, l’apparenza di terzietà ed imparzialità dell’ufficio giudiziario chiamato a giudicare i fatti che coinvolgono un collega, che, per particolari rapporti lavorativi intrattenuti con lo stesso, potrebbe sfruttare una ‘rendita di posizione’ all’interno dell’ufficio giudicante”. Perfino in caso di decesso, ricorda Del Coco richiamando il caso delle stragi di mafia del 1992 con i processi per le morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che si svolsero a Caltanissetta. La Corte d’assise d’appello ha quindi sentenziato l’annullamento della sentenza di primo grado e il trasferimento del procedimento a Potenza, dove si ripartirà davanti al giudice per l’udienza preliminare. Con il rischio prescrizione che ora incombe su buona parte dei reati contestati.

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