Sono giornate davvero drammatiche in Israele. Dopo gli eventi della settimana scorsa, comprese le due misteriose ondate di esplosioni dei cercapersone e dei walkie talkie tra gli Hezbollah, è arrivato anche l’ultimo giorno di vita di un terrorista di tutto rispetto come Ibrahim Aqil. “Aqil e i comandanti che sono stati eliminati erano tra gli architetti del piano per l’occupazione della Galilea, in cui Hezbollah progettava di entrare in territorio israeliano, occupare le comunità della Galilea, uccidere e rapire civili in modo simile a quello che Hamas ha compiuto nel massacro del 7 ottobre”, aveva affermato il portavoce dell’esercito. Sulla sua testa Aqil aveva una taglia di sette milioni di dollari ed era ricercato anche dagli Stati Uniti per la strage all’ambasciata Usa a Beirut nel 1983. La risposta di Hezbollah non è mancata ad arrivare.

Nella notte tra sabato e domenica 500.000 israeliani si sono trovati a vivere sotto un pesante attacco di missili razzi e droni suicidi di Hezbollah, e le radio e le televisioni sono rimaste accese tutta la notte in moltissime case mentre giungevano le immagini. Cosa ancora ci aspetta? Il partito di Dio da un anno attacca il nord del Paese incessantemente e ha costretto 60.000 persone a lasciare le proprie case in Galilea. Ma adesso ci si trova a un altro livello di belligeranza e ci si chiede cos’altro succederà. Esploderà una guerra totale, ben peggiore di quelle che la hanno preceduta? E chi vi prenderà parte?

Per il momento lo spazio aereo del nord, da Haifa in su, è stato chiuso al traffico aereo civile, non apriranno e saranno proibiti assembramenti all’esterno di più di trenta persone e all’interno, in luoghi dotati di rifugio o stanze protette, di trecento. Le scuole al nord sono state chiuse.

Ma malgrado i pericoli e la guerra e la tensione, la protesta è continuata.

A centinaia di migliaia, forse anche più della settimana precedente, sabato sera abbiamo dimostrato a Tel Aviv, a Cesarea davanti alla residenza privata di Netanyahu, e anche davanti alla residenza del presidente Herzog a Gerusalemme.

I parenti dei rapiti hanno rilasciato una ennesima dichiarazione chiedendo il rilascio dei loro cari, sullo sfondo della nuova fase della guerra in cui il centro di gravità si è nettamente spostato verso nord.

“Netanyahu – ha dichiarato una delle madri – non hai un mandato per abbandonare i rapiti con la scusa della guerra al nord. Da mesi segnaliamo che stai deliberatamente bloccando l’accordo. Adesso non lo vediamo e lo sappiamo solo noi, lo sa tutto il Paese”. Alla protesta a Cesarea hanno partecipato anche generali in pensione e un ex capo di Stato maggiore, Dan Halutz. A mezzanotte due giovani poliziotti lo hanno trascinano via con la forza, insieme ad altri.

Un’ennesima drammatica notizia che ci ha raggiunto è che il ministro della difesa Gallant rimane al suo posto, malgrado Netanyahu avesse deciso alcuni giorni fa di sostituirlo con Gideon Saar, capo del partito “nuova speranza”. Saar, con una mossa inaspettata, ha dichiarato che rinuncia all’incarico. In un sondaggio pubblicato il giorno prima il 70% degli intervistati aveva dichiarato di non volere Saar, scelto da Bibi perché a favore della “vittoria totale” e per ragioni politiche interne. Gallant invece insieme a tutto l’apparato militare e della sicurezza di Israele era d’accordo sul cedere a Hamas la fine della occupazione militare israeliana del “corridoio Filadelfia” pur di arrivare a un accordo per la liberazione degli ostaggi.

Come si vive in una situazione simile, in cui la realtà cambia di ora in ora, di minuto in minuto, e i pericoli non si sa mai da dove possano arrivare, e come e quando. Come si sceglie da che parte stare e per cosa lottare e spendersi?

Mentre stavo scrivendo queste righe sentivo i giovani che frequentano uno dei bar qui intorno a casa mia discutere animatamente su ciò che sta succedendo e forse sta per succedere mentre i caccia passavano sopra la nostra testa diretti al nord. Parlavano anche di arte, di mostre, di film. Ragazzi normali che sembrano vivere vite normali. È a loro che penso quando si parla di guerra. E soprattutto quando si fa la guerra. Quanti di loro torneranno? Non mi abituerò mai alla morte dei nostri ragazzi in guerra. Mai.

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