Quasi 10 anni fa, nel 2015, fu presentato a Palazzo Reale lo “Studio di fattibilità per la riapertura dei Navigli milanesi“. Era il frutto del lavoro di un gruppo multi-disciplinare, nato in modo spontaneo e disinteressato (Figura 1). Proponeva alla città e al suo sindaco come onorare il risultato del referendum consultivo dal 2011. Aveva risposto cui ‘Sì’ il 49% dei milanesi, il 94% dei votanti. Per un referendum consultivo era stata una percentuale da sogno, una illusione di libertà e partecipazione che sarebbe stata cara a Giorgio Gaber, mai più avvistata da queste parti.
Pensavo che un’idea in apparenza utopica potesse trasformarsi in realtà. Non soltanto fattori urbanistici e architettonici, ma anche ragioni idrologiche, idrogeologiche, idrauliche, viabilistiche, ambientali ed economiche giocavano a favore. Il resto del mondo si era mosso con largo anticipo sul recupero delle linee d’acqua sacrificate allo sviluppo industriale e al consumo di suolo. In Oriente, nelle Americhe e perfino nella riottosa, uggiosa e conservatrice Europa molti progetti di daylighting erano già stati messi in cantiere. E molti conclusi.
Bonificare, prosciugare e coprire i fiumi e i canali navigabili era stato un irresistibile moto della modernità. A cavallo degli anni Trenta furono coperti i Navigli a Milano, il Bisagno a Genova e il Castro ad Arezzo; e una moltitudine di canali, rogge, torrenti e fiumi che furono sepolti in tutta la penisola. Come nel resto d’Europa, dove i becchini fluviali erano stati più avveduti dei Milanesi, condannati a pagare un duro prezzo al Seveso. Le città che hanno coperto o deviato i fiumi (Ivrea, Istanbul, Arezzo, Palermo, Nizza, Valencia…) si sono votate ai disastri naturali. È il prezzo della modernità novecentesca, talora esibita da regimi non proprio democratici.
Cancellare l’acqua a Milano, con assidua e zelante meticolosità, è stato un impegno costante di tutto il ‘900, il secolo della modernità. La modernità ha inghiottito Seveso e Olona, risparmiando il Lambro, ma rettificandolo in modo imbarazzante, oggi frazionato da quasi 80 traverse: una cintura di castità che spesso si mostra del tutto insufficiente. La modernità aveva depresso la falda milanese a tal punto da ingolosire la speculazione sotterranea, salvo accorgersi che, con la morte dell’industria, la falda sta risalendo alla sua profondità naturale, poco apprezzata da tunnel, metropolitane, autorimesse e interrati.
Sbarazzarsi dei Navigli, simbolo del romanticismo che i futuristi odiavano, celebrava il mito della velocità. Serviva a snellire il traffico di Milano, città lontana da grandi fiumi ma sorta sulla linea d’acqua delle risorgive. E si è così cancellata una forte identità, disprezzando la lezione di Leonardo, l’ingegnere idraulico per eccellenza, e di molte generazioni d’ingegneri e architetti, prima e dopo di lui, da Bartola da Novate a Lechi e Frisi.
Negare i risultati referendari è un’abitudine radicata in questo paese. I milanesi chiesero a maggioranza bulgara, che si procedesse “gradualmente alla riattivazione idraulica e paesaggistica del sistema dei Navigli milanesi”. I milanesi non sono stati ascoltati.
Nonostante la delusione nel vedere il nostro progetto malmenato dalla politica e abbandonato nei cassetti comunali, mi ostino a credere che riaprire i Navigli non sia tuttora una utopia, ma una decisione politica da prendere in modo consapevole. Il nostro progetto, senz’altro migliorabile se accompagnato da una nuova coscienza urbanistica, ha enormi ricadute idrauliche e ambientali. Tutto meno che il green washing tanto di moda.
Per prima cosa, viene risanata l’immissione del Seveso nel Naviglio Martesana, una follia anni 50 che mescola acque purissime con un flusso melmoso e puzzolente. Deve fare parte di questo disegno anche la costruzione della galleria tra Seveso e Lambro, uno scolmatore già previsto dal Piano di Difesa Idraulica di Milano di 90 anni fa, il cui progetto esecutivo fu presentato dal Comune nel 2006 e fu poi abbandonato brutalmente, senza alcuna prova scientifica della sua inefficacia o incoerenza (Figura 2).
Al gruppo di lavoro era stata chiesta una puntigliosa analisi dei costi e dei benefici. E il risultato dell’analisi benefici-costi, l’ABC, era molto positivo. Un risultato da mettere a confronto con quello di molte altre opere, infrastrutture, colate di cemento che hanno invaso Milano negli ultimi dieci anni. Non dubito che siano state tutte iniziative con ABC altrettanto positivi, ma sarebbe interessante valutare chi ha pagato i costi e chi ne ha beneficiato.
La modernità è moderna perché si evolve a passo con i tempi; e modernità è oggi chiudere il cerchio, come richiede l’Associazione “Riaprire i Navigli” in occasione della Milano Green Week, un titolo che rimbomba come un ossimoro (Figura 3). Non solo riaprire il cerchio dei Navigli che giace sepolto, ma creando anche una connessione in grado di ripristinare la medioevale continuità della rete idraulica di acque. Fin dall’epoca romana, questo reticolo ha donato acque di alta qualità a una città capace di migliorarne la struttura e le prestazioni, di generazione in generazione ispirate dalla visione leonardesca, la profetica fantasia che assimilava le reti idrauliche a quelle arteriose. Per poi fermarsi malamente per tutto il ‘900 e nei primi 24 anni del nuovo millennio.