“Artiste che raccontano la crisi ecologica, spesso attraverso il loro corpo e in maniera evocativa? Tra le tante, penso a Néle Azevedo, artista brasiliana e al suo progetto Minimum Monumentum, centinaia di piccole figure di ghiaccio collocate nelle piazze del mondo dove si sciolgono rapidamente: una presa di coscienza della fragilità dell’uomo”.

Milena Cordioli è una storica dell’arte, insegna allo IUSVE di Venezia. Oltre ad aver scritto Performance artistica e coscienza ecologica. Il corpo incontra l’ambiente (Libreriauniversitaria.it Edizioni, 2023), è autrice, insieme ad Arianna Novaga, storica delle arti e docente di Fotografia sempre presso IUSVE, del recente Physis. Contributi dell’arte e della fotografia alla formazione di una coscienza ecologica (Castelvecchi, 2024): in cui il focus è su quattro autori che si esprimono con diversi mezzi (la fotografia, la scultura ambientale, l’installazione e l’opera multimediale).

È vero che l’arte contemporanea utilizza sempre più la performance per esprimersi, specie sui temi ecologici?

M.C. Sì, gli artisti di cui parlo hanno voluto mostrare come la connessione tra l’essere umano e il mondo che abita è assoluta, come non esista distinzione tra natura e cultura. Questo significa un vero e proprio crollo dell’antropocentrismo.

Il tema ecologico si intreccia a quello del femminismo: in che modo?

M.C. L’arte porta a una liberazione dei corpi e in particolare di quelli femminili, oltre al fatto che c’è una presa di coscienza del legame profondo tra il corpo della donna e l’idea della Madre Terra, della forza creatrice che non è solo generatrice in senso naturale, ma è anche generatrice di idee, di pensiero.

Oltre Néle Azevedo, ci sono altre artiste che parlano di ecologia?

M.C. C’è Aida Sulova, nata in Kirghizistan e autrice di una sorta di performance fotografica in un’enorme discarica, che si chiama Once Upon a Plastic Bag, dove lei stessa si districa tra borse di plastica in cui è intrappolata; l’artista di origine svizzera Ann-Katrin Spiess invece si è fatta trasportare in gondola a Venezia dentro una bara trasparente piena di plastiche non riciclabili per denunciare sia il problema dei rifiuti abbandonati che l’overtourism (il progetto si chiama Death by plastic).

Come reagiscono gli studenti di fronte a queste espressioni artistiche?

M.C. Restano del tutto affascinati da questi linguaggi, anzi è la parte del corso che amano di più. Racconto anche performance un po’ folli, come quelle di Petr Štembera, artista dell’Europa dell’est che negli anni Settanta fa un’opera che si chiama Innesto, in cui si taglia l’avambraccio e ci mette del fertilizzante per far nascere una pianta. Un’altra artista è Teresa Murak, di Lublino, che nel 1968 è stata una pioniera, con la sua performance chiamata Seme: il suo corpo disteso in una vasca per giorni era coperto di semi da cui nascevano piante e fiori, grazie al suo calore.

Arianna Novaga, perché nel libro ha scelto di parlare di Ansel Adams?

A.N. Il suo forte impegno per tutelare e salvaguardare la Wilderness dei grandi parchi americani come Yosemite è molto importante da ricordare e fare emergere come parte integrante del suo percorso di fotografo. Per lui fotografia e impegno civile nei confronti dell’ambiente hanno viaggiato in parallelo e sono stati un modello che oggi è necessario rivalutare.

Qual è il rapporto tra la documentazione dei luoghi e l’aspetto artistico nel caso di Burtynsky, l’altro autore di cui parla nel libro?

A.N. Il progetto di Edward Burtynsky a cui mi riferisco nel libro si chiama Anthropocene, ed è fatto in collaborazione con i videomaker e registi Baichvald e de Pencier. Si tratta di un progetto multimediale in cui la fotografia ancora una volta gioca un ruolo determinante, ma che si intreccia con il video, le installazioni immersive, la realtà virtuale in vari modi. Tra le pagine metto in luce soprattutto gli aspetti di denuncia che emergono dalle immagini. Immagini che sono ibride, documentano e informano, ma sono veri e propri quadri. L’uso del colore, la composizione, il punto di vista zenitale, confondono consapevolmente le carte in tavola.

L’immagine fotografica è diversa dall’arte, anche nel racconto della crisi ecologica?

A.N. La fotografia di cui parlo è pienamente inquadrata come arte, nel senso che gli artisti usano la macchina fotografica come strumento per estendere il proprio sguardo e il proprio pensiero. Quindi l’artista ha già dentro di sé la tensione necessaria verso quel tipo di consapevolezza, e il suo mezzo per renderla pubblica è la fotografia. Della stessa Nancy Holt abbiamo deciso di pubblicare uno scatto fotografico realizzato da lei alla sua opera, e la fotografia stessa è considerata un’opera d’arte.

Possiamo dire che l’arte ci aiuta a superare l’ecoansia, mettendo insieme ragione e sentimento?

M.C. Sì, perché il tema ecologico non viene trattato solo in termini scientifici, non ne percepisco solo l’aspetto disastroso, ma c’è anche una speranza, che è legata anche alla bellezza di queste azioni e alla loro immediatezza comunicativa. Penso ad esempio alla bellissima tela di Anselm Kiefer, esposta recentemente a Palazzo Strozzi, in cui c’è un uomo disteso dal cui corpo si genera un albero. Oppure all’opera Ice Watch di Olafur Eliasson, – uno dei quattro artisti trattati nel libro Physis – in cui enormi blocchi di ghiaccio sono stati portati a sciogliersi nelle piazze, con le persone che reagivano nei modi più disparati.

Quelle “ecologiche” sono spesso opere che spesso di autodistruggono.

M.C. Sì. La Land Art nasce alla fine degli anni Sessanta in America, quando gli artisti dicono basta ai musei, che reputano luoghi morti e sostengono che la tela sia la natura. È un’arte fatta con la natura e nella natura, che porta con sé il concetto dell’impermanenza, ricordando che nessuno è al riparo. Sono opere che, appunto, spesso si auto dissolvono e quando gli studenti mi chiedono se questo non sia frustrante per l’artista rispondo di no, perché per questi artisti le opere fanno parte della vita, sono eventi inseriti nel ciclo del mondo. In questa epoca di crisi ecologica è ora di lasciare l’idea del monumento che resta per sempre.

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