Si narra che il regista Tobe Hooper abbia urlato verso gli attori in continuazione a ogni ciak durante il mese di riprese, che sul set ci fossero 43 gradi e che dentro la casa di Leatherface ci fosse una puzza infernale di cadaveri animali in putrefazione da far vomitare attori e tecnici. Grazie a tutto ciò, e anche a molto altro, Non aprite quella porta è il più grande horror mai girato. E rivederlo dopo una trentina d’anni, per un cinquantennale di tre giorni (23-24-25 settembre) in 4k nelle sale italiane, risulta terribilmente perfetto.
Non aprite quella porta (The Texas chainsaw massacre) è cinema disturbante dal primo all’ultimo fotogramma, con dei jump scare, su quella soglia di una inquietante casa in mezzo alla campagna, che sono diventati matrici classiche dello spavento. Per non dire della similitudine spesso trascurata tra gli animali inermi da macello e i cinque protagonisti, tre ragazzi (uno paralitico in carrozzina) e due ragazze.
In una fetta di desolante Texas del 1973, appena sfumati sui titoli di testa i resti di due cadaveri impalati in un cimitero, mentre una voce alla radio descrive le gesta di un ladro di tombe i cinque protagonisti del film – Sally, Franklin, Jerry, Pam, Kirk – viaggiano tranquilli sul loro furgone. Prima passano davanti a un mattatoio e alcuni di loro provano raccapriccio, poi raccolgono un autostoppista piuttosto folle e violento (e subito lo cacciano), si fermano a fare benzina (che non c’è) in una stazione di servizio, infine si ritrovano al cospetto di una vecchia magione isolata dove vivevano anni addietro i parenti di Sally. Davanti, e poco oltre, la soglia della porta della casa verranno decimati ad uno ad uno da Leatherface, un enorme tizio con una maschera di pelle (umana) sul volto e una motosega sempre accesa per sveltire il lavoro di macellazione.
Non aprite quella porta è talmente asciutto, stringato, privo di sottotrame e di parentesi graffe e quadre da far passare in un amen l’ora e ventitre tesi come corde di violino. Si dice anche che il film di Hooper sia il capostipite dello slasher, grazie all’uso primigenio della motosega nell’uccidere. Vero. Anche se il dosaggio di sangue (animale) – da rivolo su mano e braccia, alla totale copertura corporea di Sally sul finale – è estremamente graduale e mai scioccamente tronfio.
Insomma un pionierismo creativo e produttivo che lascia ancora oggi il segno, come se quei 140mila dollari di budget, diventati 31 milioni di incassi, fossero il segno di una libertà compositiva impossibile da ripetere. Tra sequel e reboot ci sono altri sette titoli del franchise che non fanno un baffo alla versione Hooper. Versione che fu addirittura presentata nel maggio del 1975 nientemeno che alla Quinzaine des Realisateurs a Cannes assieme ad Allonsanfan dei Taviani e Il diritto del più forte di Fassbinder. Certo il piano metaforico e politico è forte, persino innovativo per l’epoca (“Il cuore del film era sulla carne; riguarda la catena della vita e l’uccisione di esseri senzienti”, dichiarò il regista) con gli esseri umani massacrati, sezionati, appesi ai ganci di macelleria, come gli animali da macello. Ma è sotto l’aspetto del realismo recitativo, dove le esigenze da low budget diventano pregio stilistico, che Non aprite quella porta compie quel salto di qualità difficilmente ripetibile: “Tutta quella roba fisica e i combattimento e tutto il resto, erano reali. Sembravano reali, suonavano reali, quindi sapevi che erano reali. Ecco perché il film è un tale assalto al tuo sistema nervoso”.