A più di 12 mesi di distanza dall’avvio di una misura che ne dura al massimo 12 avremmo voluto conoscerne l’efficacia. Perché il Supporto formazione e lavoro (Sfl), scialuppa da 350 euro al mese per coloro che nel 2023 si sono visti togliere il Reddito di cittadinanza dopo essere stati dichiarati “occupabili” per legge, è nato come alternativa all’assistenzialismo, “pensata per supportare quella fascia di ex percettori di RdC che, per le loro caratteristiche, come evidenziato nei precedenti rapporti annuali dell’Inps e dall’Anpal, sono molto lontani dal mercato del lavoro e devono attivarsi ed essere presi in carico direttamente dai servizi per l’impiego per risultare work ready”, si legge a pagina 182 del nuovo rapporto annuale appena pubblicato dall’Inps. Invece, sulla capacità della misura di “attivare” quanti vi hanno aderito l’Istituto non dice nulla. Niente sulle politiche attive effettivamente erogate, niente sui contratti di lavoro attivati grazie al percorso. E nulla che possa smentire ciò che tanti beneficiari hanno denunciato al Fatto in tutti questi mesi: che si tratta di una “truffa” che ha condannato molti di loro alla fame, stavolta senza alternative. Perché, non dimentichiamolo, per accedere al Sfl serve un “ISEE familiare non superiore a 6 mila euro annui”: bisogna essere poveri.
Nel XXIII rapporto Inps, il paragrafo dedicato al Sfl parte male. Si ricorda che “il richiedente, inoltre, è soggetto al rispetto di un procedimento per l’accesso alla misura che prevede anche dei precisi obblighi e competenze di tipo digitale”. Poi, tra parentesi e con sprezzo del ridicolo, si precisa che tali competenze digitali “potrebbero comportare qualche difficoltà per gli individui di età più avanzata“. Un eufemismo visti i troppi problemi del nuovo Sistema Informativo di Inclusione Sociale e Lavorativa (Siisl), la piattaforma lanciata lo scorso settembre insieme al Sfl, magnificata dalla ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone e maledetta da chi, presentando domanda, iniziava un calvario che ad andar bene rinviava di mesi l’erogazione dell’indennità e spesso finiva per sospenderla. Il condizionale utilizzato dall’Inps, al quale la ministra ha affidato la gestione della piattaforma, suona dunque come un’offesa a chi ha mandato decine di mail e messaggi, anche ricevendo dall’Istituto risposte così: “In merito alla sua richiesta le comunichiamo che non abbiamo accesso a Siisl. Non sappiamo dirle, quindi, quando partiranno i pagamenti“. “Dal 30 al 50 per cento di chi ha fatto domanda ci ha segnalato problemi a ricevere i soldi, e parliamo solo di quelli che si rivolgono a noi”, spiegavano a primavera gli operatori di alcuni centri per l’impiego, ricordando il più assurdo dei paradossi: i servizi all’impiego non possono accedere alla piattaforma. Cosa poteva andare storto?
Veniamo dunque ai dati pubblicati ora dall’Istituto sulla misura che dura “un massimo di 12 mensilità, non rinnovabili, erogata solo a condizione di partecipare alle suddette iniziative” di politica attiva: “progetti di formazione, di qualificazione e riqualificazione professionale, di orientamento, di accompagnamento al lavoro e di politiche attive comunque denominate”. Da settembre 2023 a giugno 2024 il numero di beneficiari di almeno una mensilità del Sfl è pari a 102 mila, col 78% tra Sud e Isole. Il 28% del totale risiede in Campania, seguita da Sicilia (18%), Puglia (12%) e Calabria (11%)”. E’ interessante osservare come l’Istituto riprenda un’analisi cara alla ministra. Si parte dai dati del 2022 sui quali il governo Meloni lavorò per introdurre la stretta al Rdc già nella legge di bilancio 2023. “Lo scopo dell’analisi è quello di dare qualche indicazione sui motivi che potrebbero spiegare il contenuto ricorso alla misura, rispetto alla popolazione che avrebbe potuto richiederla”, scrive l’Inps prima di chiarire di chi è la colpa. “A dicembre 2022 su un totale di 1,2 milioni di nuclei percettori di RdC/PdC (pensione di cittadinanza, ndr), circa 418 mila presentavano caratteristiche tali da poter beneficiare della nuova misura”. Di questi, a fine 2023 erano 273 mila nuclei che non percepivano più il Reddito di cittadinanza. “Ma il dato interessante è che tra questi ultimi, 176 mila non hanno presentato domanda né di Sfl né di Assegno di inclusione (il nuovo Reddito di cittadinanza, ndr)”. Al netto di chi magari ha trovato lavoro beneficiando “della congiuntura economica favorevole”, cosa è andato storto? La piattaforma? La burocrazia? Le tante domande respinte, sospese, revocate, in lavorazione? O magari la sfiducia di chi già sapeva che nella sua regione i corsi di formazione non erano nemmeno in programma? Più semplicemente, scrive l’Inps, “per un’altra parte non si hanno elementi che giustifichino il mancato ricorso alle nuove misure“.
Ben più diretta, a maggio Giorgia Meloni suggerì che “è possibile anche che alcune di queste persone non stessero cercando lavoro. Il che è perfettamente legittimo, solo che se non vuoi lavorare non puoi neanche pretendere di essere mantenuto con i soldi di chi lavora duramente tutta la settimana”. Con l’occasione aggiunse: “Abbiamo messo in piedi una piattaforma che consente di fare un corso di formazione che consenta loro di trovare lavoro. Su quella piattaforma sono caricate circa 228mila proposte di lavoro e circa 526mila posti di corsi di formazione”. Numeri non verificabili e diversi da quelli forniti dalla ministra Calderone, come il Fatto ebbe modo di spiegare approdando a un dato non diverso da quello riportato oggi dall’Inps, il 20%. E dunque, com’è andata a quelli che si sono visti accogliere la domanda? La formazione è stata davvero l’opportunità vantata da Meloni? Ribadendo il concetto della platea molto lontana dal mercato del lavoro, l’Inps ci informa “che nel 29% dei casi il curriculum vitae non viene caricato o non contiene un’indicazione utile ad individuare il titolo di studio, mentre nel 41% dei casi è riferito un titolo di scuola media inferiore o elementare“. Quanto all’età, “il 50% dei beneficiari ha un’età compresa tra i 50 e i 59 anni“. Infine ci dice che ad oggi, a questi ultracinquantenni con scarsa istruzione e lontani dal lavoro sono state erogate in media 3,7 mensilità. In euro significa una media di 1.295 erogati in un intero anno a persone in comprovata povertà assoluta. Del resto, volle chiarire la ministra Calderone, “non si fa la formazione per avere il sussidio. Si fa la formazione per accrescere le proprie competenze”. Bene, oggi sappiamo che queste persone hanno arricchito le proprie competenze per tre mesi o poco più.
Che si tratti di un fallimento lo dicono le parole di un funzionario dello stesso ministero del Lavoro, Stefano Raia, che già lo scorso dicembre chiariva come stanno le cose: “L’attività più erogata è l’orientamento individuale o di gruppo: simulazione di colloqui, bilancio di competenze, laboratori sulla ricerca di lavoro”. Sono quelle che Raia definisce “misure leggere, che non garantiscono in termini di esito l’identificazione della propria visibilità da parte della persona all’interno del mercato del lavoro”. In altre parole, non danno alcuna chance. Stupisce? Nella spesa per le politiche attive non possiamo nemmeno competere con Paesi come Germania, Francia o Spagna. “Il 60% di queste persone – aggiungeva Raia – hanno necessità di riqualificazione lunga, almeno 600 ore di formazione”. Al contrario, “in questo momento la formazione lunga viene esperita per numeri non particolarmente rilevanti nel nostro Paese”. Numeri che oggi l’Inps conferma perché nessuna riqualificazione lunga si più fare in tre mesi. Ed ecco perché, senza altri dati né risposte da parte del ministero del Lavoro, è difficile dar torto ai tanti che definiscono il Sfl “una truffa, altro che opportunità“. Perché i 12 mesi sono passati, compresi i pochi dedicati ai corsi di formazione. Le offerte di lavoro non sono arrivate e intanto si sono visti staccare utenze, minacciare di sfratto, dimagriti dalla fame. Il Fatto ha raccontato le storie di alcuni e di come il Sfl sia stato per loro una lenta agonia, “da occupabili a disperati”.