Questo è un videoblog deliziosamente autoreferenziale perché io sono un delizioso autoreferente, mi darete atto che la logica è stringente, quasi soffocante. Oggi voglio parlarvi della persona più importante della mia vita: Aldo Farina. Papà nacque al Cairo da una famiglia italiana, suo padre si chiamava Eugenio e la mamma Isabella. Isabella di cognome faceva Gigliotti ed era cugina della bellissima cantante Dalida. Papà, il primogenito, aveva due fratelli, Roberto e Dario e una sorella di nome Loredana. Gli italiani all’estero hanno un amore incondizionato per l’opera lirica, nella casa cairota di rue Cherif Pacha risuonavano sempre le note di Verdi, Puccini, Rossini.

Mio nonno Eugenio era un uomo molto virile, aveva un’officina meccanica, e ha cresciuto i suoi figli con una certa severità, non priva però di momenti di tenerezza. Ricordo che papà mi raccontò di quando disse a Eugenio che era stato il primo della classe e il padre gli rispose “hai fatto semplicemente il tuo dovere”. Un giorno però papà fu espulso dall’istituto dei Gesuiti al Cairo, venne accusato ingiustamente di avere buttato delle palle di pezza a terra, gli fu ordinato di raccoglierle, papà si rifiutò, gli dissero che lo avrebbero espulso se non le avesse raccolte e papà rispose in francese: je m’en fous (me ne fotto). Ovviamente fu espulso ma in questo caso nonno Eugenio non gli disse nulla, nessun rimprovero, anzi, noi Farina abbiamo sempre odiato le ingiustizie e i soprusi. Sono molto legato a quel je m’en fous di papà.

Un giorno il destino bussò alla porta, è proprio il caso di dirlo, Papino, il dirimpettaio di rue Cherif Pacha rimase vedovo, pochi giorno dopo rimase vedova anche Giovannina, la madre di mia nonna Isabella. Papino e Giovannina si sposarono. Papino aveva la sua famiglia a Firenze, così un’estate di tantissimi anni fa i Farina andarono in vacanza nella casa di Campo di Marte a Firenze. In quella casa c’era mia madre tredicenne e appena mio padre la vide si innamorò perdutamente, erano coetanei.

Papà, tornato in Egitto, scriveva lettere d’amore a mia madre, paragonandola alla Sfinge, e una lettera dopo l’altra, una vacanza estiva dopo l’altra, l’amore tra di loro prese forma. In seguito i Farina si trasferirono a Roma. Ora erano più vicini. Insomma, per farvela breve, all’età di 24 anni convolarono a nozze, papà trovò lavoro a Milano presso l’ingegnere Zanardelli, dopo 6 anni di libertà coniugale nacque il sottoscritto e dopo 4 anni nacque anche mio fratello Roberto.

Che padre è stato mio padre? Nonna Isabella era anafettiva e mio padre ha sempre avuto difficoltà a mostrare direttamente il suo affetto, non amava essere toccato o abbracciato per esempio, ci teneva a distanza di sicurezza a me e mio fratello, ma ogni sera veniva a controllare i caloriferi nella nostra stanza, era il suo modo di dirci “vi voglio bene”. Papà era molto spiritoso, a volte usava il suo spirito per colpirci, si divertiva a dirci “siete le due seghe che ho più rimpianto nella mia vita”. Papà era grosso, bellissimo ed elegante, usava il suo spirito anche contro se stesso: “Da morto non sarò una salma ma un salmone”.

Innamoratissimo di mia madre Milena, miss Incanto a Firenze, faceva tutto per lei, era un grande venditore di turbine a vapore e quando prendeva un ordine importante di turbine, tornava a casa e ci regalava uno dei suoi balletti di gioia, con tutto il suo peso sapeva essere lieve nella danza, proprio come Oliver Hardy, l’Ollio di Stanlio e Ollio. La domenica mattina ci ospitava nel suo letto per raccontarci del capitano Achab, ma il suo Achab era quello hollyoodiano di Gregory Peck, non quello di Melville, eppure è l’Achab più bello per me e mio fratello.

Ho tantissimi ricordi viventi (i ricordi non sono delle figurine Panini attaccate alla mente, sono organismi), ricordo mio padre in lacrime, piangeva come un bambino sul divano di velluto marrone del salotto, era notte fonda e i suoi gemiti quasi urlati mi svegliarono, era appena morto Eugenio, suo padre, mio nonno, mi avvicinai timoroso e stupito, quel grande uomo ridotto in lacrime mi sconvolgeva, papà si accorse di me e mi disse “ti prego, lasciami solo, torna a dormire”.

Ricordo la prima volta che mi uscì il seme, andai di corsa da papà che stava leggendo il Corriere della Sera sul divano e gli dissi “papà, ora sono come te!”, lui smise di leggere, mi guardò e mi disse “ma non più di tre alla settimana, mi raccomando”. Ricordo le bellissime serate in cui Dario, il fratello di papà, veniva a cena da noi e ci diceva di avere composto dei pezzi “molto forti” e quei pezzi erano Sarà perché ti amo, Mamma Maria, Felicità, Come vorrei, Ci sarà, Se mi innamoro e tante altre canzoni divenute poi immortali. Ricordo le feste che i miei genitori davano con gli amici, mangiavano e ballavano dei lenti, e io e mio fratello ci godevamo lo spettacolo degli adulti che si divertono.

Un giorno dissi a papà che volevo fare il poeta e che non avevo intenzione di vendere turbine a vapore e lui mi rispose “ok, fai quello che vuoi, anzi meglio, più stai lontano dal mio ufficio e meglio è, ma il poeta devi andarlo a fare sotto i ponti, va bene?”. “No papà, il poeta voglio farlo qui in casa, tu vendi turbine e io scrivo versi e mi godo anche tre mesi di vacanza in Versilia”. Non era poi così severo Aldo. Ci provarono con mio fratello, lo mandarono a fare studi di ragioneria al Moreschi di Milano, forse pensavano che almeno lui avrebbe continuato il lavoro di papà, niente da fare, dopo ragioneria mio fratello ha fatto Lettere moderne e adesso è diventato uno scrittore con i fiocchi. Le turbine a vapore resteranno sempre un mistero per me, ed è giusto che sia così.

Anche mio padre resterà sempre un mistero, tante cose non so di lui e posso solo immaginarle, ma so che è stato un bravo papà che ci ha permesso di seguire le nostre inclinazioni e che sotto sotto era orgoglioso di questi due figli strani, ogni tanto mi chiedeva di dire i miei aforismi o le mie poesie alle tavolate di amici, creandomi un grande imbarazzo ma anche un certo piacere. Il suo insegnamento più bello è stata la generosità ma ancora di più la brillantezza, per farvi capire meglio, se il suo garagista gli diceva che il figlio si era laureato, il giorno dopo papà tornava con una bottgilia di champagne come regalo per la laurea. Era tanto grosso ma anche tanto affascinante e davanti allo specchio imitava l’espressione di Clark Gable in Via col vento.

Nel 2004 è arrivata una telefonata nel cuore della notte, c’era stato da poco lo tsunami dell’Oceano Indiano, più di 230 mila morti, ma lo ricordo solo per la morte di papà. La notte del 30 dicembre papà è morto per aneurisma della aorta, prima di morire è riuscito a dire a mia madre “ti amo” e le sue ultimissime parole davanti al medico sono state “non respiro bene”. Io e mio fratello abbiamo fatto il viaggio fino a Massa dove papà si era trasferito da anni con mamma, siamo arrivati all’alba, un grande lenzuolo bianco sopra di lui, vicino a una finestra tutta illuminata, giaceva papà, immenso, misteriosamente muto, e io e mio fratello gli abbiamo detto addio. Io gli ho detto “ti amo papà”.

Il medico ci ha raccontato gli ultimi istanti, ci ha detto che non ha sofferto, una morte fulminante, ci ha chiesto se potevano prelevare le sue cornee, abbiamo risposto subito di sì, perché papà era generoso, papà era brillante e continua a brillare nei nostri cuori. Anche io donerò i miei organi oltre la morte, ma sto facendo di tutto per consumarli senza riserve perché amo la vita. L’infermiera che chiamò mia madre le disse “suo marito è deceduto”. Deceduto, questo è il linguaggio della medicina, freddo e impersonale. Anche per questo esistono i poeti. E se i miei giorni, liberi dal lavoro, sono una continua sfida al vuoto e una invenzione costante dei miei attimi, questo lo devo a un uomo che vendeva turbine a vapore, a papà.

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