Il ministro dello Sviluppo Economico Adolfo Urso conferma che l’Italia chiederà alla Commissione Europea, insieme ad altri paesi, di anticipare la revisione del regolamento Ue che prevede la fine della produzione di auto con motore a scoppio nel 2035. Tuttavia la linea sembra un po’ meno dura rispetto a quella delle ultime 48 ore, anche perché il supporto tedesco non è così totale come sembrava.
Come dice lo stesso Urso in un punto stampa al Parlamento europeo di Bruxelles, il ministro tedesco “Robert Habeck intende mantenere la data del 2035” per lo stop ai motori a combustione interna “ma è disponibile a discutere di tutte le condizioni per giungere a quell’appuntamento con un’industria europea competitiva, discutere su quali risorse, anche risorse comuni, e della neutralità tecnologica come una delle condizioni fondamentali”.
Quindi anche la posizione italiana si ammorbidisce. “Lo stop al 2035 è possibile, ma bisogna tutelare le imprese”, afferma Urso. Il ministro ricorda: “Chiederemo alla Commissione Europea, anche attraverso un non-paper che intendiamo presentare insieme ad alcuni Paesi europei con cui mi sto confrontando, che sia anticipata la data di esercizio della clausola di revisione del regolamento sulla riduzione delle emissioni, già prevista per la fine del 2026, alla prima parte del 2025″, perché “non possiamo lasciare per altri due anni le imprese e i consumatori nell’incertezza su cosa fare”.
La prima scadenza è quella del 2025 quando le emissioni medie di Co2 per auto dovrebbero limitarsi a 93,6 g/km. Su questi target di decarbonizzazione , c’è chi è più avanti e chi è più indietro. Quindi case automobilistiche favorevoli ad una dilazione dei tempi ed altre che vi si oppongono. Il numero uno di Stellantis Carlos Tavares è stato chiaro: “Cambiare adesso le norme sarebbe surreale. Tutti conoscono da molto tempo quali sono le regole e hanno avuto tempo per prepararsi. Adesso è il momento di gareggiare”.
Insieme a Bmw e Toyota, Stellantis sta raggiungendo gli obiettivi o è prossima a farlo. Viceversa Renault e Volkswagen sono più indietro. Come si vede non è neppure una divisione tra industrie di diversi paesi ma all’interno dello stesso stato. L’industria dell’auto europea mette attualmente in conto di pagare sanzioni per 13 miliardi di euro per le auto e 3 miliardi di euro per i furgoni, a causa del mancato raggiungimento dei target che scattano il prossimo anno. Ma le sanzioni graveranno in maniera molto diversa tra i vari marchi. Uno studio di Renault indica che questo obiettivo potrebbe essere raggiunto con una quota di elettriche intorno al 20% del totale, mentre al momento la quota è del 15% e in calo.
Urso fa poi una previsione: se l’Ue non prenderà “atto della realtà” del settore automotive, si vedrà “imporre” un “cambiamento” dalle “decine di migliaia” di operai che perderanno il posto di lavoro. In mancanza di un approccio realistico alla transizione verde, che allinei “politica ambientale, politica industriale e politica della sicurezza”, che trovi per esempio il modo di produrre in Europa batterie realizzate con materie prime “estratte dal nostro sottosuolo” e renda “sostenibile” l’obiettivo di vendere solo veicoli nuovi a emissioni zero nel 2035, in base al “principio di realtà” la transizione alla mobilità elettrica andrebbe “posticipata”.
La posizione di Urso era stata anticipata in un’ intervista al Financial Times. “La road map del Green Deal, così come è stata concepita, ha già dimostrato le sue contraddizioni, con il crollo del mercato europeo dei veicoli elettrici e la grave crisi delle case automobilistiche europee”. Il quotidiano londinese ricorda anche che la produzione di automobili in Italia è scesa di oltre un terzo nei primi sette mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2023.
I veicoli elettrici, ha detto Urso, “costano troppo rispetto ai redditi di europei e italiani” e l’apertura troppo frettolosa dell’Europa all’elettrico, senza prima sviluppare le proprie catene di approvvigionamento nazionali, potrebbe renderci dipendenti dalla Cina. “Il rischio, ha osservato, è che si passi dalla dipendenza dai combustibili fossili russi alla dipendenza dalle materie prime critiche provenienti, prodotte o lavorate in Cina“.