Sono passati 56 giorni dal 31 luglio, quando a Teheran un’esplosione sbriciolò l’ala di un compound dei Guardiani della rivoluzione in cui dormiva Ismail Haniyeh. “La Repubblica islamica dell’Iran difenderà la sua integrità territoriale, il suo onore, e farà pentire gli invasori terroristi della loro azione codarda”, furono le prime parole del presidente Massoud Pezeshkian, che si era insediato appena poche ore prima. Dopo 56 giorni, una lunga serie di proclami, diverse migliaia di morti a Gaza, un’operazione di intelligence che ha fatto decine di vittime facendo esplodere dei cercapersone e l’avvio di una guerra nel Libano dell’alleato Hezbollah, la pluri-annunciata vendetta contro Israele non è arrivata e ieri Teheran è tornata ancora una volta a parlare dell’assassinio del capo politico di Hamas: “Abbiamo il diritto di reagire” ma “la comunità internazionale ci ha chiesto di usare moderazione per porre fine alla guerra a Gaza”, ha detto alla Nbc il vice presidente Mohammad Javad Zarif.

Il diplomatico che nel 2015 raggiunse l’accordo sul nucleare con Barack Obama è una delle cartine al tornasole attraverso cui guardare il ruolo dell’Iran nella partita che lo Stato ebraico sta giocando in Medio Oriente. Pezeshkian lo ha voluto fortemente nel governo. Il lavoro svolto nel trattare con i paesi del “5+1“, composto dai 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti) più la Germania, è valso a Zarif la credibilità internazionale di cui il presidente ha bisogno per raggiungere l’obiettivo promesso in campagna elettorale e accordatogli dall’ayatollah Ali Khamenei: avviare un percorso riformatore necessario a rompere l’isolamento e intavolare con l’Occidente una trattativa che porti ad allentare le sanzioni che asfissiano il paese, alle prese con una forte crisi economica. “Se le altre parti sono pronte, anche l’Iran è pronto a riavviare i colloqui sul nucleare”, ha detto ieri a New York, dove si trova per l’Assemblea generale dell’Onu, il ministro degli Esteri Abbas Araghchi, altro diplomatico di lungo corso voluto nell’esecutivo perché ben noto alle cancellerie occidentali.

La partita è vitale per Teheran. Nei discorsi tenuti fino a oggi Pezeshkian ha manifestato la volontà di aprire nuove strade per collaborare con le potenze occidentali. Un percorso lungo e difficile, già ostacolato dai rapporti tra Teheran e la Russia di Putin, che finirebbe per essere compromesso in caso di una reazione contro Israele. Ancora ieri, nel suo debutto sulla scena internazionale a New York, sui bombardamenti che l’Idf sta conducendo in Libano, Pezeshkian ha detto: “Noi non vogliamo la guerra, vogliamo vivere in pace. Noi non vogliamo essere la causa dell’instabilità. Sappiamo più di chiunque altro che se una guerra più ampia dovesse scoppiare in Medio Oriente, non gioverebbe a nessuno in tutto il mondo”. Quello in Libano, per Pezeshkian, è un “tentativo di Israele di spingere il Medio Oriente in un conflitto totale, provocando l’Iran a farsi coinvolgere nella guerra”.

Al momento Teheran ha fatto di tutto per evitarlo. Finora il bisogno di vedersi ridurre le sanzioni è stato un legaccio stretto attorno alle sue mani, che persino i Pasdaran hanno accettato. La strategia di Benjamin Netanyahu è imperniata su questa consapevolezza. Il premier israeliano sa che quella con l’Occidente per la Repubblica islamica è una partita vitale, così l’ha usata come leva per allargare gradualmente il suo raggio di azione. Prima l’avvio dell’operazione per sradicare Hamas dalla Striscia di Gaza con i suoi oltre 41mila palestinesi morti, poi l’assassinio mirato di Haniyeh nella capitale iraniana, considerata non solo dal regime una violazione territoriale, quindi l’apertura del fronte libanese con altre centinaia di vittime: nulla finora ha fatto sì che Teheran si spingesse oltre le minacce.

Pezeshkian, tuttavia, sa che non può mostrarsi debole. L’ayatollah ne ha avallato l’elezione e lo lascerà tentare, ma il credito che gli ha accordato non è illimitato. Pasdaran e ala conservatrice si aspettano risultati, ma soprattutto non vogliono che la cautela possa essere letta all’interno come debolezza. Lunedì, alla vigila della sua partenza per New York, il quotidiano Kayhan, allineato con il regime, ha messo in guardia il presidente dall’incontrare i leader statunitensi. L’editoriale, firmato da Hossein Shariatmadari, redattore capo e longa manus della Guida Suprema nel giornale, li definisce “incontri umilianti” e avverte che i riformisti che lo hanno consigliato in questo senso potrebbero finire per schierarsi contro Pezeshkian. Da oltreoceano lui ha risposto che tra gli scopi del suo viaggio c’è quello di lavorare per “neutralizzare” l’immagine fuorviante che dell’Iran si ha in Occidente, ribadendo la sua volontà di dialogo. Ma interrogato sul Libano ha avvisato: Hezbollah “non può restare solo contro Israele” e un conflitto regionale “potrebbe essere pericoloso per il futuro del mondo. Dobbiamo impedire che Israele continui ad commettere atti criminali”.

Se quella libanese sia l’ultima delle molte “linee rosse” di cui la Repubblica islamica ha parlato dopo l’inizio della guerra a Gaza non è dato sapere. La penultima Teheran l’aveva tracciata il 20 settembre: “Ancora una volta, questo regime ha oltrepassato una linea rossa prendendo di mira il nostro ambasciatore”, aveva detto il rappresentante permanente iraniano alle Nazioni Unite, Amir Saeid Iravani, dopo l’esplosione dei cercapersone che aveva decimato i quadri medi di Hezbollah e colpito Mojtaba Amani, rappresentante iraniano a Beirut. Ma, appunto, era la penultima e poi ce n’è stata un’altra, come altre ne n’erano state prima. Nel frattempo Netanyahu ha spostato in avanti l’ennesima asticella, compiendo l’ennesimo di una lunga serie di atti di sfida. Finora Teheran ha deciso di resistere.

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