L’algerino era inarrestabile: «Siamo noi i negri, qui! Sai come ci chiamano i francesi? Bicot, melon, raton, nor’af. Significano negro in francese. non temi che possiamo derubarti? Non sei inorridito dai nostri vestiti non stirati, dall’odore dei nostri corpi? No, ma sul serio… voglio farti una domanda seria. Permetteresti a tua figlia di sposare uno di noi?»

Il volto di pietra, di William Gardner Smith (traduzione di Giada Diano; Edizioni Clichy), è un romanzo coraggioso sul razzismo e la salvaguardia di una propria identità personale che si sviluppa nel vortice delle tensioni e delle violenze scoppiate in Francia durante la Guerra d’Algeria. È, inoltre, una delle prime testimonianze pubbliche sul massacro di Parigi del 1961, quando il prefetto Maurice Papon (un collaboratore dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale) ordinò il coprifuoco in città solo per i “musulmani algerini”, atto al quale, questi, risposero con una manifestazione pacifica che coinvolse trentamila persone.

Nelle questure cominciarono ad arrivare le false notizie di poliziotti aggrediti dai manifestanti e la repressione divenne violentissima. I manifestanti vennero picchiati a morte, uccisi a colpi di pistola o gettati nella Senna, vivi o morti, a volte con mani e piedi legati. I cadaveri riaffiorarono a decine nei giorni successivi. In quindicimila vennero arrestati. La mattanza consegnò alla cronaca duecento morti, quattrocento dispersi e duemilatrecento feriti.

Simeon Brown, giovane giornalista afroamericano protagonista del romanzo, ha perso un occhio in un agguato razzista a Philadelphia e decide di trasferirsi a Parigi, conosciuta come un rifugio sicuro per artisti e intellettuali neri, e in breve tempo si ritrova affascinato dalla Ville Lumière, dove può fare e ciò che vuole senza paura. Attraverso Babe, un’altra emigrata nera americana, fa nuove amicizie e presto si innamora di un’attrice polacca sopravvissuta a un campo di concentramento. Allo stesso tempo, però, Simeon comincia a sospettare che Parigi non sia certo il paese delle meraviglie: il governo francese sta lottando per reprimere la rivoluzione in Algeria, e gli algerini vengono regolarmente fermati e perquisiti, picchiati e arrestati dalla polizia francese, anche se molto peggio deve ancora venire. Grazie alla sua amicizia con Ahmed, un radicale algerino, Simeon si rende conto che non può più rimanere uno spettatore passivo dell’ingiustizia francese.

Ridevano dicendosi che avrebbero potuto essere cugini, qualche millennio prima, e che avevano vissuto in città vicine, prima di ritrovarsi alla stessa manifestazione parigina, loro che abitavano entrambi nel 93, sulle rive del canal Saint-Denis. «Lo sapevi che 93 è il numero del dipartimento di Costantina?». «Vedi, la Francia non si libererà mai dell’Algeria.»

Le mediterranee, di Emmanuel Ruben (traduzione di Linda Cibati; Astarte Edizioni), è un romanzo intimo e delicato che traccia, attraverso le storie di più donne, i percorsi delle tante identità del popolo algerino. Berberi, ebrei, arabi, pieds-noirs si miscelano per mostrare la radicata appartenenza a un’unica comunità: quella del Mediterraneo, patria degli esuli di ieri e di oggi.

È il dicembre del 2017 e la storia inizia alla periferia di Lione dove Samuel Vidouble raggiunge i parenti riuniti per celebrare la festa di Hanukkah. Guardando le fiammelle che bruciano sul candelabro di famiglia, l’ultima prova tangibile dell’esistenza della “loro” Algeria, Samuel si dice che sia arrivato il momento di intraprendere il viaggio verso la terra in cui nessuno di loro ha più messo piede dal 1962, dove spera anche di ritrovare Djamila, che aveva conosciuto a Parigi, la notte degli attentati, e che era partita per abbracciare la Rivoluzione che avrebbe posto la fine al governo di Bouteflika. Passato e presente si intrecciano durante le sue peregrinazioni per le strade di Costantina, costruendo una saga familiare che diventa romanzo d’amore con attimi di comicità e di poetica nostalgia.

E i lavandini e i cessi, chi li stura? Anche il defecare è culturale, e lo dimostra il fatto che i turchi usano una posizione diversa dalla nostra! E vi ricordate La grande abbuffata di Ferreri? Non è un’altra dimostrazione? Ben presto la realtà si sarebbe incaricata di dare risposta a tutte queste domande.

Sotto il Beaubourg, di Albert Meister (traduzione di Roberto Ambrosoli; Elèuthera Editrice), è un geniale esperimento narrativo dove viene immaginata una vita collettiva autonoma nel sottosuolo del Centro Pompidou nel quale l’arte, l’amore, la sessualità e l’economia edificano un’utopia svincolata dal sistema vigente in superficie.

Pubblicato la prima volta nel 1976, firmato con lo pseudonimo di Gustave Auffeulpin, il sociologo svizzero immagina uno spazio libertario radicale sommerso sotto il fulcro della cultura francese ufficiale. In un mondo capovolto, i settantasei piani sommersi sotto il Centro Pompidou forniscono una alternativa lavorativa e creativa. Narrato in modo poetico, a volte esasperato, a volte realistico, Sotto il Beaubourg è una satira riuscitissima che colpisce al cuore la noiosa cultura sponsorizzata dallo Stato.

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