di Leonardo Botta

È partita un’altra campagna di referendum. All’argomento principe, l’Autonomia Differenziata, si sono aggiunti i quattro quesiti sul Lavoro promossi dalla Cgil e in extremis quello sulla Cittadinanza che, complice la nuova modalità di sottoscrizione telematica, ha raggiunto le 500 mila firme (il termine era il 30 settembre per poter indire la consultazione nell’anno successivo, Consulta permettendo).

E sì che di carne a cuocere se n’è messa tanta. I vari comitati promotori contestano la legge Calderoli, ritenuta dai detrattori una norma spacca-Italia, il Jobs Act di renziana genesi e la legge sulla cittadinanza agli immigrati ormai datata 1992. Non voglio in questa sede discutere del merito dei referendum ma, piuttosto, proporre una riflessione sull’istituto in sé, alla luce di questa nuova infornata di quesiti.

Dirò subito che, da preoccupato uomo del sud, padre di due ragazze in età scolastica, ho sottoscritto convintamente il quesito sull’A.D. Non l’ho ancora fatto per quello sulla Cittadinanza (deciderò nei prossimi giorni) né per quelli sul Lavoro, tematica quest’ultima sulla quale al momento ho le idee poco chiare. Vengo al dunque. Non sottovalutando le ragioni degli altri quesiti, mi pare che l’abolizione della legge Calderoli (dopo aver fatto ammenda per aver sostenuto la riforma del Titolo V della Costituzione varata dal centro-sinistra nel 2001 a colpi di maggioranza e a Camere quasi sciolte) sia al momento il tema certamente più sentito, direi cruciale.

Allora la domanda che mi pongo è se sia strategicamente opportuno appesantire questa già complicata battaglia, le cui sorti stabiliranno il modello socio-economico dell’Italia nei prossimi decenni (soprattutto su materie che mi sembrano dirimenti come sanità, scuola, previdenza) affiancandole gli altri cinque quesiti. Io temo di no, per i motivi che provo a enucleare.

La più bella, appassionante stagione referendaria che il nostro paese abbia conosciuto fu quella consumatasi negli anni settanta, con il paese chiamato a esprimersi su materie che toccavano le sensibilità personali, come divorzio e aborto. Non dimentico naturalmente la chiamata al voto degli italiani per decidere la nostra forma di Stato, Repubblica o Monarchia. Abbiamo poi conosciuto altri momenti di importante scelta: i referendum sulla scala mobile, sulla preferenza unica per le elezioni politiche (quello in cui Bettino Craxi, che stava cominciando la sua parabola discendente, invitava gli italiani ad andare al mare piuttosto che ai seggi), sul maggioritario nato dalle ceneri della prima Repubblica sulla spinta dei comitati guidati da Segni.

Arrivò il tempo in cui il ricorso ai referendum, per iniziativa prevalentemente di Pannella e dei radicali, diventò talmente compulsivo da cominciare a stufare gli italiani. Ricordo a un certo punto di aver votato per l’abolizione del ministero dell’Agricoltura (che poi fu prontamente reintrodotto!) o dell’Ordine dei giornalisti. Fatto sta che, a un dato momento, gli elettori hanno cominciato a snobbare questo pure importante strumento della nostra democrazia; quello che per decenni era stato il campo di confronto/scontro tra due opposte concezioni, tra il Sì e il No, è diventato una partita tra i promotori e gli astensionisti!

Dopo i referendum del ’95 (quelli che includevano anche i quesiti su Rai e Tv private), il quorum del 50%+1 è diventato sempre più un miraggio. Fu mancato per un soffio quello sull’abolizione della quota proporzionale del Mattarellum e poi fu raggiunto, se non ricordo male, solo nel 2011, quando oggetto del contendere era un argomento molto sensibile come l’acqua pubblica. Viceversa, una delle più deprimenti pagine referendarie fu quella sui temi della Giustizia (anno 2022) che registrò appena il 20% di partecipanti.

È questo il rischio: chiamare al voto gli italiani su così tante e variegate tematiche potrebbe anche questa volta invogliare i più a seguire il consiglio di Craxi. E buonanotte ai suonatori.

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