Ogni volta che sbuca materiale audio video su Gian Maria Volontè accorriamo trepidanti a vederlo. Per noi l’attore milanese morto sul set a 61 anni nel 1994 non solo è il più grande di tutti i tempi, ma ci attrae perennemente come un magnete. Una specie di overdose performativa totalizzante. A volte, come in La classe operaia va in paradiso o Indagine… ti viene quasi voglia di metterlo in pausa da quanto è carico, energico, devastante.
In Volontè – L’uomo dai mille volti, il documentario di Francesco Zippel ce ne dà la prova offrendoci qualche chicca inedita e proponendo un filo conduttore narrativo d’attori altisonante non proprio adeguato (lo spieghiamo tra qualche riga). Afferma nel documentario Jean Gilì, storico e critico francese, unico transalpino (forse) ad aver amato follemente cinema e cultura italiana del novecento: “Contrariamente ai colleghi italiani Volontè sembrava uscito dall’Actor’s Studio”. Verissimo.
Volontè non aveva nulla dell’impianto melodrammatico/drammatico (vedi come tratta Amedeo Nazzari alla premiazione di un Nastro d’Argento, chicca numero 1) tipico del dopoguerra recitativo italiano. Una specie di sacro, composto, raffinatissimo furore tutto interiore, tutto pronto ad esplodere in scena. I tre moschettieri che gli offrono la scena, tutta intera, tutta sua, chiavi per aprire e chiudere titoli di testa e coda, sono sostanzialmente tre: Gianfranco Rosi, Elio Petri e Giuliano Montaldo. Lulù Massa, appunto, ma anche Enrico Mattei, Lucky Luciano, Giordano Bruno o Bartolomeo Vanzetti.
“Viveva con i personaggi”, ricorda l’ultima compagna Angelica Ippolito. Quando Volontè interpretò Aldo Moro in Il caso Moro di Giuseppe Ferrara (1986) dopo aver interpretato il leader DC nell’allegorico Todo Modo di Petri (1976) “tornava a casa e lo chiamavo onorevole”, spiega ancora la Ippolito (chicca numero 2, il backstage da Il delitto Moro).
Insomma, Gian Maria diventava qualcun altro di celebre, di sconosciuto (il tenente Ottolenghi in Uomini Contro), di simbolico (il “Dottore” di Indagine) diventando “coautore del film senza cambiare una riga dello script”. Addirittura (terza chicca con Rosi, Petri e Hitchcock sul palco di Cannes) diventa il collante della doppia vittoria dell’Italia a Cannes, con la Palma d’oro a ex aequo nel 1972 sia come protagonista di La classe operaia va in paradiso e Il caso Mattei.
C’è tanto anche del Volontè politico, anche perché il Volontè politico è tutto, struttura, sostanza, anima del suo essere attore. Come quell’altro backstage (quarta chicca) del documentario diretto da Volonté, La tenda in piazza (1972) dove mentre intervista operai e lavoratori in sciopero in piazza di Spagna viene arrestato dalla polizia e il valente super8 di un ammiratore del nostro lo immortala mentre soccorre un operaio manganellato dalla polizia. Insomma Volontè – L’uomo dai mille volti regala una immersione nella philia e nella memoria granulosa delle pellicole dei sessanta/settanta, anche se prova a tessere un ritratto forbito chiamando a commentare lo stile di Volonté ad attori di oggi come Toni Servillo, Pierfrancesco Favino, Fabrizio Gifuni. Provocando uno strano effetto bomba atomica: tutti si sforzano di elogiarlo ma diventano piccolissimi, quasi invisibili. Capita, di fronte a Volontè capita a tutti. Del resto, frase da stampare su pietra, come dice qualcuno che non ricordiamo, nel documentario: “Gian Maria oggi non si troverebbe in nulla di quello che c’è”. Aggiungiamo noi: di politico, di culturale, di cinematografico.