Anche il Libano, dopo Gaza, dopo Cisgiordania, Siria, Iraq, Yemen. Una vasta parte del mondo abbandonata all’aggressione militare dell’impero e del suo braccio armato locale, Israele. È doloroso vedere le immagini di uomini, donne, bambini, anziani stremati in coda verso il nulla, in fuga dalle loro case.
Adesso, infatti, è la volta del Libano: lì ci sarebbero i cattivoni, barbuti di Hezbollah e allora la macchina della propaganda è tarata su questo modulo. Di là c’è Hamas, di qua il Partito di Dio: lasciateci lavorare, dicono gli strateghi di Tel Aviv. Mentre scriviamo i loro generali stanno preparando l’invasione di terra e gli Stati Uniti ammassano truppe a Cipro.
Ho molto amici e amiche in Libano, dove sono stata tante volte sempre a settembre, insieme al Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila, per ricordare il massacro architettato in quel mese del 1982 dall’allora ministro della difesa Ariel Sharon e realizzato dai falangisti. Il Comitato prese vita a livello internazionale quando un agguerrito pool di avvocati e militanti riuscì a convincere le autorità del Belgio, in forza di una loro legge del 1993 sulla cosiddetta Competenza universale, che fosse arrivato il momento di procedere alla incriminazione di Sharon e dei suoi complici libanesi. I vertici della Nato, a cose decise, ci misero un’oretta a capire cosa fare: minacciarono lo spostamento della loro sede dal Belgio e così, fatalmente, naufragò una campagna che si era mobilitata in diversi paesi del mondo e che dava speranza alle vittime di quel massacro e di altri, tanti massacri.
Il Libano è un paese di commercianti, la sua popolazione è profondamente laica e aperta, la sua gioventù e vivacissima, bellissima, conosce le lingue e guarda al futuro, non è certo un paese bellicoso. A questo proposito, bisogna sempre ricordare che durante la famigerata Guerra dei sei giorni nel ’67, l’allora governo di Beirut fece di tutto pur di rimanerne fuori. I libanesi non avevano nessuna intenzione di prender parte al conflitto, mentre Israele occupava il Golan siriano, il Sinai egiziano, Gerusalemme, Gaza e Cisgiordania: ma poi una flotta navale battente bandiera libanese venne bombardata dagli aerei di Tel Aviv, provocando grandi sommovimenti nel governo e nella società libanesi.
Da una parte c’era una coalizione di partiti laici, chiamata il Movimento nazionale e che riuniva varie forze di ispirazione nasseriana, ampiamente radicate tra i sunniti, il partito comunista, il partito socialista di Kemal Jumblatt – in Italia è più noto suo figlio Walid. Dall’altro lato, si organizzò il partito falangista che raccoglieva i gruppi cristiani schierati dalla parte di Israele la quale coltiva sempre lo stesso sogno, quello ancora attuale: fare del Libano uno Stato cristiano proprio alleato e succube, legittimando in quel lembo di Medioriente uno Stato teocratico.
Queste sono le radici di quella che poi diventerà la guerra civile di una società spaccata in due: uno scontro nel quale la vivacissima realtà palestinese ebbe un ruolo importantissimo, ovviamente, essendo il bersaglio delle incursioni israeliane. Proprio come oggi: attaccare Hezbollah, per quanto noi di qua possiamo non capirli e non conoscerli, significa attaccare un fronte che in Medioriente si oppone alla ebraizzazione di Gerusalemme, alla cancellazione dei palestinesi, alla creazione di uno Stato di occupazione militare permanente.
La riduzione e la disumanizzazione del nemico a puro terrorista, per quante contraddizioni esso possa avere, è molto utile in questo piano di controllo militare che non è riuscito negli anni passati ad Israele e c’è da dubitare che riuscirà anche adesso.