Pubblichiamo un intervento di Paolo Liberati dell’Università Roma Tre, Centro di Ricerca di Economia e Finanza Pubblica (Cefip), e Massimo Paradiso, dell’Università di Bari e Cefip. Che spiegano come le leggi di Bilancio siano ormai ridotte a “rito contabile” con cui si distribuiscono “apparenti benefici” a chi ancora paga le imposte per intero. Un modo per mascherare il fatto che a diverse categorie è stato concesso di sottrarsi all’Irpef progressiva attraverso regimi privilegiati. Cosa che, riducendo il gettito, costringe a intaccare le prestazioni sociali. Un quadro confermato dalle anticipazioni sulla prossima manovra: le misure previste per i lavoratori dipendenti sono “trascurabili”, mentre si confermano i favori ai proprietari immobiliari e a chi ha redditi da capitale e agli autonomi – che stando alle stime ufficiali non dichiarano due terzi dei propri redditi – si offre il concordato biennale con annesso condono.

L’annuale scadenza della legge di bilancio è ormai un rito contabile nel quale, dietro la danza delle cifre, viene occultata la sistematica violazione della democrazia fiscale di questo Paese, in cui sempre gli stessi pagano le imposte per sostenere quel che rimane dei beni e servizi pubblici di carattere universalistico. Insistendo sulla sostenibilità finanziaria del bilancio pubblico si reitera di anno in anno la necessità di ridurre il perimetro di questi beni e servizi, cui corrispondono diritti sociali, dalla sanità all’istruzione alla previdenza, che vengono erosi da categorie di contribuenti alle quali è invece consentito di godere di un sistema tributario di favore senza essere esclusi dal godimento di alcun diritto. Per meglio occultare questo perverso disegno politico, in cui si riduce la spesa pubblica per tutti e si riducono le imposte solo per alcune categorie privilegiate, si ricorre al sistema tributario per attribuire apparenti benefici fiscali anche a chi le imposte le paga per intero. Anche quest’anno, per quanto ancora non vi siano certezze, le prime ipotesi sulla legge di bilancio confermano questa visione: accrescere il favore ad alcune categorie di contribuenti e tentare di mantenere o realizzare alcune delle fatue promesse a favore di lavoratori dipendenti e pensionati.

A riguardo due sono le pregresse questioni principali: se confermare lo sgravio contributivo già previsto lo scorso anno, e se confermare la riduzione a tre delle aliquote Irpef. Provvedimenti, entrambi, trascurabili rispetto sia ai problemi posti dall’attuale struttura del sistema tributario, sia ai bisogni dei soggetti beneficiari di questi interventi. Gli sgravi contributivi – tenuto conto che avvengono all’interno di un sistema pensionistico nel quale i contributi attuali devono finanziare le pensioni attuali – rappresentano una forma di illusione tributaria per i lavoratori dipendenti, dato che la riduzione dei contributi ha già reso e renderà ancora necessario trovare fonti alternative di finanziamento per sostenere le pensioni attuali. Cioè, nuove imposte che non potranno che ricadere sugli stessi lavoratori; a meno di non intervenire sui livelli pensionistici – come pure ventilato e di cui si dirà sotto – nel qual caso il taglio riguarderà le pensioni attuali e quelle future degli stessi lavoratori che oggi sembrano beneficiare di un minore prelievo.

Per ciò che riguarda le aliquote, poi, la passione che si profonde nel cercare di comprendere se sia meglio avere tre, quattro o una sola aliquota serve solo a mascherare ciò che da anni nell’Irpef non si vuole affrontare. Concentrandosi sulle aliquote, si fa credere che il problema dell’Irpef sia di equità verticale (appunto quante e quali aliquote), distogliendo l’attenzione dall’ormai colossale e disturbante violazione dell’equità orizzontale, in ragione dei diffusi e ingiustificati trattamenti tributari differenziati accordati ad alcune categorie di contribuenti che, in virtù di questi favori fiscali, da anni si sottraggono parzialmente o totalmente alla progressività del prelievo. Basti ricordare una volta ancora che circa l’85% del reddito complessivo Irpef arriva da lavoratori dipendenti e pensionati e poco più del 6,5% dei contribuenti dichiara più di 50mila euro. Nulla di cui stupirsi, dato che sull’Irpef gravano circa 30 miliardi l’anno di mancato gettito, principalmente derivante da chi si sottrae illegalmente al pagamento dell’imposta. È sufficiente notare, al riguardo, che secondo le stime ufficiali, nell’Irpef il reddito di lavoro autonomo e di impresa non dichiarato è pari a circa due terzi del totale. Un quadro che dovrebbe far riflettere sulle conseguenze di una frammentazione della società che il sistema tributario sta costruendo: da un lato coloro che onestamente adempiono al loro dovere reclamando prestazioni sociali come corrispettivo del prelievo; dall’altro coloro che si sottraggono a tale dovere, compromettendo la soddisfazione di tali diritti per tutti.

Si aggiunga a questo quadro già compromesso che alle stesse categorie che hanno potuto agevolmente evitare il pagamento dei tributi, si offre la via d’uscita del concordato preventivo biennale. Con questo strumento, di fatto, il fisco si accorda con i contribuenti in merito al livello di reddito da riportare a tassazione. Cosicché, sull’eccedenza rispetto al livello concordato non si pagherebbe alcuna imposta; e quell’eccedenza non sarebbe neanche più ufficialmente classificabile come evasione, dato che è il meccanismo stesso del concordato a renderla legalmente non tassabile. Come se non bastasse, poi, emergono proposte per ‘incentivare’ l’adempimento di questi contribuenti, attraverso qualche forma di sanatoria delle situazioni pregresse, proposte che – a prescindere dalla loro effettiva realizzazione – tradiscono lo scarso interesse per l’adempimento fiscale regolare.

A questa novità, si accostano poi i favori fiscali resi, da molti anni, ai redditi di lavoro autonomo e di impresa attraverso il regime forfetario che prevede un’aliquota del 15% (sostitutiva dell’Irpef ma anche delle relative addizionali regionali e comunali) e una soglia di ingresso pari a 85mila euro di ricavi, di cui si discute persino l’estensione a 100mila euro; ai proprietari immobiliari che possono optare per la cedolare secca sugli affitti al fine di essere incoraggiati a compiere il loro dovere, cioè registrare i contratti di affitto, con un’aliquota del 10 o del 21%; e all’eterno favore fiscale concesso ai detentori di redditi da capitale e ai percettori di plusvalenze in un momento storico in cui si dà adesione (per ora solo formale, visto che gli Stati Uniti non appaiono più così decisi) al progetto di tassazione minima delle multinazionali e si reclamano forme di tassazione patrimoniale dei super-ricchi.

Ora, in questo desolante quadro, la panacea pare sia quella di aumentare le detrazioni per i figli a carico. Anche in questo caso, ben si comprende come nessuna parte politica, in questi anni, abbia avuto una chiara cognizione degli obiettivi che un sistema tributario dovrebbe perseguire. Fino al 2022, le detrazioni per figli a carico erano parte strutturale del sistema tributario, per la fondata ragione che una famiglia con figli, avendo una minore capacità di contribuire alle spese pubbliche (art. 53 della Costituzione), deve subire un carico tributario inferiore. La natura tributaria della detrazione, pure in accordo con la nostra Costituzione, lega infatti il prelievo alla capacità di contribuire alle spese pubbliche e si differenzia da ogni altro strumento non tributario a sostegno delle famiglie con figli in situazione di difficoltà: in questi termini, la detrazione non può essere un sostituto della fornitura di beni e servizi in natura fondamentali per la tutela dei figli.

Eppure, in contrasto con questa ovvia logica, le detrazioni per figli a carico sotto i 21 anni sono state abolite. E attivando contemporaneamente l’assegno unico (un trasferimento monetario), si è così pensato di poter supplire alla strutturale insufficienza della fornitura di beni e servizi a tutela delle famiglie: asili nido, tutela sanitaria, garanzia dell’istruzione, tutela delle madri lavoratrici, e via dicendo. Attraverso l’offerta di modesti sussidi monetari alle famiglie con figli (come già accaduto con vari bonus) è stato così possibile, nel tempo, dissimulare il sistematico arretramento dello Stato sociale. Ora, si propone di tornare alle detrazioni – non è chiaro ancora in quale forma – anche con l’obiettivo di favorire la natalità: confondendo ancora una volta la natura tributaria della detrazione con il ruolo che dovrebbe svolgere la spesa sociale.

C’è infine l’evegreen, cioè l’idea di ritoccare alcuni livelli pensionistici attraverso una parziale compensazione dell’inflazione; si tratta di un’imposta occulta, che toccherà, a detta di chi la propone, le pensioni più alte. Sarà utile, al riguardo, verificare il livello delle pensioni interessate da questo provvedimento rispetto al livello dei redditi che attualmente possono aderire al regime forfetario di imposta. Si tratta cioè di capire se sia socialmente accettabile che pensioni, ad esempio, di 40mila o 50mila euro lordi annui, debbano essere chiamate ad un sacrificio aggiuntivo nello stesso momento in cui si consente a imprenditori individuali e professionisti con analogo reddito di versare allo Stato soltanto il 15 per cento di imposta.

Tale è lo stato della democrazia fiscale nel nostro Paese, alimentato da politiche di governo e di opposizione in cui è diffusa l’ignavia o l’inconsapevolezza delle conseguenze politiche e sociali, che già si manifestano nella crescente crisi delle democrazie occidentali. Che è crisi dei diritti sociali a garanzia di quella eguaglianza delle opportunità che avrebbe dovuto essere il connotato fondante delle democrazie, specialmente europee, e della stessa originaria idea di Europa unita. All’erosione di questi diritti contribuiscono in Italia i circa 80 miliardi di minore gettito dovuto all’evasione; così come in Europa contribuisce l’azione indisturbata di quei Paesi – pure pronti, come l’Olanda, a richiamare gli altri alla disciplina fiscale e alla riduzione delle protezioni sociali – che operano come paradisi fiscali; e contribuisce il ruolo dell’Italia (tra le destinazioni più ambite, secondo i dati rilasciati da una società di consulenza britannica) nel fornire riparo fiscale ai milionari in fuga.

Come rimediare? Occorre ricondurre il discorso politico alla necessità democratica di restituire le imposte al loro rapporto con le spese, riconoscendo la finalità dell’imposta nel finanziamento dei diritti sociali; e occorre rendere manifesto che chi si sottrae al finanziamento di questi diritti impedisce che siano garantiti anche a coloro che non si sottraggono. I sistemi tributari frantumati in regimi differenziati di favore per questa o quella categoria privilegiata frammentano il contratto sociale in una molteplicità di contratti tra singole categorie di individui e lo Stato, in cui le migliori condizioni di trattamento, con allarmanti analogie a ciò che avviene nel mercato, sono ottenute da coloro che hanno maggior potere. Il maggior rischio che si corre nel tradire la democrazia fiscale è al fine il tradimento della democrazia tout court.

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