Ogni tanto spunta fuori dalla melma stagnante qualche punta di iceberg. Il guaio è che sempre più spesso riusciamo a vedere soltanto quella punta, nella nostra società il cui declino costante verso l’incapacità di approfondire e risalire alle cause prime dei problemi sembra definitivo e irrecuperabile. Che poi – sia detto per inciso – suddetta capacità di approfondire e risalire alle radici dei problemi sarebbe quanto insegnato dalla filosofia: proprio quella disciplina che, non per caso, si ha tutto l’interesse a veder sparire dal campo dell’istruzione. Non sorprende, in un sistema mediatico e produttivo in cui una popolazione confinata alla superficialità e contingenza rappresenta la migliore garanzia di ricchezza e potere per quei pochi che controllano o posseggono il medesimo sistema.

Questa punta dell’iceberg riguarda in genere una notizia sconvolgente, magari pruriginosa, sicuramente di largo consumo (e numerosi click). Nel caso di cui voglio parlare, riguarda la ragazzina di 14 anni rimasta incinta perché ha giocato alla “sex roulette”: ossia ha fatto sesso con coetanei sconosciuti, che si sono trovati e accordati tramite i social network. Si tratta di un fenomeno già attenzionato da almeno un anno riferiscono i media – che sembra far registrare dei numeri in costante e preoccupante crescita. La nuova “challenge” che, sempre stando agli organi di informazione e agli esperti interpellati, spopolerebbe fra i giovani e giovanissimi.

Da qui le dichiarazioni sulla necessità di un’educazione affettiva e sessuale dei giovanissimi, il cui problema principale sembrerebbe essere quello di una sorta di analfabetismo emotivo che li priva di una concezione sana ed equilibrata dell’amore.

Tutto più o meno vero, sarebbe da sciocchi negarlo, però siamo appunto alla sola punta dell’iceberg, a un concentrarsi sull’emersione (sotto forma di emergenza) di un problema che in realtà sussiste a livello molto più profondo. La cui causa, a ben vedere, non risale per nulla a quel presunto analfabetismo emotivo degli adolescenti di oggi di cui sopra.

Sto parlando di un grande problema che affligge un numero sempre più alto di adolescenti, il cui disagio e sofferenza si manifestano anche senza arrivare al caso estremo della “Sex roulette”. Quest’ultimo, tuttavia, sembra l’unico a cui i media mainstream sembrano voler concedere le luci dell’attenzione.

Il grande problema che affligge alla radice gli adolescenti può essere riassunto con le parole dello psicologo americano Jonathan Haidt: la generazione Z è stata la cavia di un esperimento sociale globalizzato. Il primo in cui vulnerabilità e insicurezze sono state immesse in una macchina che le riproponeva e rispecchiava ingigantite. Una generazione cresciuta soltanto con gli algoritmi, che ne hanno ricablato i cervelli, plasmato le identità, modificato i volti.

Ma soprattutto, sono stati abbandonati a una tecnologia – che per inciso è anche il più grande fattore di guadagno del nostro tempo – che li ha portati a funzionare come automi (ciò che funziona non pensa, sostiene giustamente lo psicologo argentino Benasayag), a comportarsi come solitudini comunicanti sempre più prive di empatia ma, in compenso, drogate e quindi dipendenti dalla serotonina e dopamina che ritrovano a volontà soltanto nel mondo luminoso, eccitante, appagante e continuamente stimolante rappresentato dal virtuale.

In confronto a quel mondo virtuale in cui sono letteralmente cresciuti, quello reale risulta ai nostri giovani e giovanissimi – in maniera perlopiù inconsapevole – noioso e frustrante. Da qui, nel caso della “Sex roulette” e di altri “giochi” eccitanti, l’insorgere crescente di un bisogno di ritrovare nel mondo reale quanto sperimentato costantemente in quello virtuale. Si tratta di una vera e propria tossicodipendenza, ben diversa da quella sperimentata con le generazioni precedenti ma con una caratteristica che la rende di gran lunga la più devastante: la sua diffusione.

Alla mia generazione veniva detto di “non accettare caramelle dagli sconosciuti” perché potevano contenere della droga che gli spacciatori regalavano in piccole dosi volendo rendere gradualmente dipendenti i giovani. È esattamente ciò che si è fatto con smartphone e social network, senza prevedere confronti critici, delle regole ferree a tutela dei più giovani, soprattutto senza che siano stati previsti momenti formativi volti a insegnare ai ragazzi i rischi di una iperconnessione con la virtualità.

Forse la prima e più grande invenzione per cui l’umanità non ha previsto alcun momento formativo, così che oggi emergono delle punte di iceberg tanto inquietanti quanto ben lontane dal rappresentare la radice del problema.

Ma del resto, quale stato o governo può permettersi di limitare e controllare in qualche modo il più grande strumento di business finanziario del momento? E pazienza se ci ritroviamo una generazione Z sempre più smarrita, ansiosa, drogata di eccitante finzione.

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