Una sola parola “Inaccettabile”. Il grido di papa Francesco traccia il discrimine tra la politica di devastazione, che il governo israeliano sta effettuando nel Libano, e lo stato d’animo della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica mondiale. All’ultima udienza generale il pontefice ha parlato di “terribile escalation” che la comunità internazionale dovrebbe fermare. Poi, di slancio, ha aggiunto: “E’ inaccettabile!”. Il giorno prima l’Avvenire, il giornale dei vescovi, aveva titolato a tutto campo in prima pagina: “Strage preventiva”. Nel frattempo i morti stanno superando i settecento.
C’è un equivoco, che si riverbera continuamente nei talk-show: e cioè che la scena sia divisa tra pro-Palestinesi e pro-Israeliani. Non è così. Da un lato ci sono i sostenitori di una convivenza con pari dignità tra lo stato d’Israele e lo stato di Palestina. In Italia da decenni sono nettamente e stabilmente maggioritari. Nel mondo la schiacciante maggioranza degli stati considera del tutto normale l’esistenza di Israele come di ogni altro paese. Gli stessi paesi musulmani o hanno già buoni rapporti con Israele oppure non vedono l’ora di allacciarli – come l’Arabia saudita – appena verrà riconosciuta la Palestina.
E’ bene tenerlo a mente: il popolo israeliano e la sua patria non sono minimamente messi in discussione. Ed è una felice constatazione. Paventare chissà quale olocausto è propaganda.
Dunque da un lato esiste un fronte saldo nell’idea di una convivenza israelo-palestinese. E dall’altro? Sarebbe infantile ridurre tutto alla volontà di sopravvivenza politica di Netanyahu. Il primo ministro è sostenuto da un blocco politico-sociale ben definito, da guardare per quello che è: un blocco suprematista, ultra-nazionalista nella versione laica, messianico nella versione religiosa. Un blocco violento, fanatico e sostanzialmente razzista nel senso che considera i palestinesi un’etnia da scartare dal Fiume al Mare. O tenendoli soggiogati o espellendoli fisicamente dai loro territori.
Sono temi già da tempo dibattuti nel seno stesso della società democratica israeliana. E’ questo blocco suprematista che – dopo l’attacco barbarico di Hamas il 7 ottobre – si è abbandonato ad una reazione “disumanizzante” contro i palestinesi di Gaza. Per usare le parole pregnanti del segretario di stato americano Antony Blinken.
Massacrare almeno quarantunomila persone, fra cui oltre diecimila bambini, bombardare templi, ospedali e scuole, bombardare veicoli di assistenza di cui era preannunciato e concordato il percorso, colpire giornalisti chiaramente visibili e lontani da postazioni di scontro, affamare la popolazione gazawi è fuori da ogni quadro etico e giuridico internazionale. Non si bombarda indiscriminatamente un tempio perché dentro c’è un gangster, non si bombarda una scuola perché dentro ci sono terroristi, non si bombarda un ospedale perché ci sarebbero stupratori.
A questo si aggiunge la scia di violenze sistematiche a cui beduini e palestinesi sono esposti da oltre un anno in Cisgiordania. Una politica del terrore con aggressioni, incendi, uccisioni e distruzioni. Pogrom è una parola sinistra. E’ l’attacco violento e disumano cui erano esposti in secoli passati i villaggi ebrei in Europa orientale. E’ drammatico che oggi queste azioni sinistre siano compiute da gruppi israeliani. Naturalmente questa violenza senza limiti ha bisogno dell’assenza di testimoni. Ed ecco che alla tv araba Al Jazeera viene vietato di operare in Israele e adesso anche in Cisgiordania.
Attualmente il blocco ultra-nazionalista israeliano esporta la politica del terrore nel Libano. Le vittime sono già oltre settecento. E’ sintomatico e illuminante che analisti ben ancorati nella cultura occidentale e da sempre amici di Israele – come ad esempio Nathalie Tocci, direttore dell’Istituto affari internazionali – dichiarino apertamente che le uccisioni a ventaglio in Libano e il ferimento di migliaia di persone tramite l’esplosione dei cercapersone “se compiuto da chiunque altro, sarebbe stato probabilmente definito un attacco terroristico”. Ma, prosegue Tocci, Israele “se ne infischia del diritto internazionale”.
Imboccata questa strada, la politica di Israele appare isolata come non mai. La comunità internazionale ha capito che, data la sproporzione delle forze militari (Israele è una potenza atomica e supertecnologica), il blocco suprematista intorno a Netanyahu non lotta per l’esistenza e la sicurezza della propria nazione, ma per il dominio sui palestinesi e il predominio terrorizzante sugli Stati vicini. Il mondo non dimentica che il parlamento israeliano ha appena votato una risoluzione per negare la nascita di uno stato palestinese.
Perché non si tratta di immaginare un dopo-Gaza o un dopo-operazione-Libano. Si tratta di decidere oggi – e non domani – il riconoscimento e la costituzione della Palestina. Hamas, Houthi, Hetzbollah sono sintomi violenti di un nodo non sciolto.
Quando il Papa, pacatamente, menziona sempre “Palestina e Israele”, indica l’unica strada realista. Non a caso grandi donne che hanno vissuto la Shoah, come Liliana Segre e Edith Bruck, comprendono l’intollerabilità delle sofferenze palestinesi. Meno comprensibile è il silenzio dell’associazionismo ebraico. L’alternativa è semplice: i due Stati sono garanzia di pace, il silenzio incoraggia i suprematisti.