Dal 7 ottobre in poi, le cose sono solo peggiorate.

Si sta a guardare, si alza la voce, si implora il cessate il fuoco, ma nulla cambia se non in peggio. Contemporaneamente IDF e un impunito Netanyahu, hanno incrementato le morti degli ostaggi israeliani, i morti civili e raso al suolo la Striscia di Gaza, ostaggio del muro israeliano e di Hamas. I morti civili palestinesi sono talmente tanti che basterà metterli in fila per coprire le macerie. Anche se le macerie più ingombranti non sono di cemento: macerie d’odio, infiammabili e resistenti alle generazioni.

Nominare Palestina e Gaza non è mai stato conveniente. Anzi, è stato motivo di sospetto: filo-terrorismo.

Ora le macerie umane sono così tante che in tanti, tardivamente, hanno trovato lo slancio per indignarsi. Oltre un certo limite conviene e si smette anche di fare il tifo per la propria squadra, se serve e se questa l’ha vinta troppo sporca.

Oltre un certo numero di morti, dunque, si può dire a voce alta “Palestina”, “Gaza” fino a “genocidio” (che la Storia non ha ancora riservato a nessuno il diritto d’autore per questa parola) e provare “sconcerto” per il massacro di innocenti. Alla buon’ora, ma… meglio tardi che mai. O forse no, perché se a Roma dal 5 ottobre è vietato manifestare a favore della Palestina e il 7 ottobre all’Università di Siena è vietato far parlare Francesca Albanese (relatrice speciale della Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati) e Ilan Pappé (storico israliano) vuol dire che il massacro sta diventando troppo reale e le voci che si sono alzate devono tornare sedute.

Anche la Storia deve piegarsi alla memoria, quella del vincitore e rilassare gli “intellettuali” che si sono scomodati.

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