Dopo quasi un anno di ostilità, Israele si trova a gestire un difficile equilibrio tra necessità di spesa e obiettivi di bilancio per sostenere un sistema economico che non nasconde le crepe provocate dal conflitto: le principali agenzie di rating hanno abbassato le proprie valutazioni sul Paese, e restano molte incognite per i prossimi mesi. “Siamo nella guerra più lunga e costosa nella storia di Israele con costi diretti compresi tra i 200 e i 250 miliardi di shekel (tra i 54 e i 68 miliardi di dollari americani)”, ha affermato il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich pochi giorni fa a Gerusalemme, presentando la previsione di bilancio per il 2025. In linea con le raccomandazioni della Banca di Israele, l’obiettivo è di non superare un deficit pari al 4% del Prodotto interno lordo, una quota che richiederà aggiustamenti di spesa fino a 35 miliardi di shekel (9,5 miliardi di dollari). “Le decisioni che abbiamo preso per una politica economica espansiva durante la guerra sono state giuste, hanno mantenuto viva la società, e hanno fatto andare avanti l’economia”, ha rivendicato Smotrich. Per l’anno in corso si prevede un deficit al 6,6%, il triplo del 2,25% pianificato.

L’economia israeliana stava crescendo rapidamente prima dell’inizio della guerra, in gran parte grazie al suo settore tecnologico. Il Pil pro capite annuo era cresciuto del 6,8% nel 2021 e del 4,8% nel 2022. Ma nel quarto trimestre dello scorso anno, con l’avvio delle ostilità, il Paese ha registrato un crollo del Pil del 21,7%, che la successiva ripresa nei primi tre mesi del 2024, con una crescita del 14,1% rispetto al trimestre precedente, non è riuscita completamente a compensare, costringendo a rivedere le previsioni più ottimistiche. A luglio, dopo un secondo trimestre stazionario con una crescita ferma all’1,2% a un tasso annualizzato, la Banca centrale ha quasi dimezzato le sue previsioni di crescita per il 2024, portandole all’1,5% dal 2,8% atteso a inizio anno.

Un quadro difficile confermato dalle principali agenzie di rating che, una dopo l’altra, hanno tagliato negli ultimi mesi il proprio giudizio su Israele. A febbraio Moody’s, ad aprile S&P e a metà agosto Fitch, che ha abbassato la sua valutazione da “A+” ad “A” per l’impatto della guerra, gli accresciuti rischi geopolitici e le operazioni militari su più fronti. “Le finanze pubbliche sono state colpite e prevediamo un deficit di bilancio del 7,8% del Pil nel 2024 e un debito che rimarrà al di sopra del 70% del Pil nel medio termine”, scrive Fitch. “A nostro avviso, il conflitto a Gaza potrebbe durare fino al 2025 e ci sono rischi che si estenda ad altri fronti. Oltre alle perdite umane, potrebbe comportare una significativa spesa militare aggiuntiva, la distruzione delle infrastrutture e danni più ingenti all’attività economica e agli investimenti, portando a un ulteriore deterioramento del rischio di credito di Israele”.

Sono 46mila le imprese israeliane che dall’inizio della guerra hanno chiuso i battenti, secondo la società di business information CofaceBDI. Il 77% di queste, circa 35mila, erano piccole imprese, con non più di cinque dipendenti. Secondo l’amministratore delegato di CofaceBDI, Yoel Amir, intervistato dal quotidiano israeliano Maariv, “le imprese più vulnerabili sono quelle del settore edile e, di conseguenza, anche l’intero ecosistema che opera attorno ad esso: ceramica, alluminio, materiali da costruzione e altro ancora – tutti questi sono stati notevolmente danneggiati”.

Quasi nessun settore è stato risparmiato dalle conseguenze della guerra. Colpito il commercio, con l’industria della moda, delle calzature, dei mobili, degli articoli per la casa; il settore dei servizi, dell’intrattenimento e del tempo libero; i trasporti ma anche l’industria del turismo e il settore agricolo: entrambi hanno visto diventare teatro di combattimento tradizionali aree turistiche e zone di produzione agricola. A trainare il sistema economico restano l’industria della difesa, il settore chimico e farmaceutico, l’industria della plastica, della gomma, della carta e del cartone. “Stimiamo che, entro la fine del 2024, circa 60mila imprese in Israele potrebbero chiudere. Per fare un confronto, nel 2020, l’anno della crisi del coronavirus, sono state chiuse circa 74mila imprese”, ha chiosato Amir.

Una delle questioni più critiche resta la forza lavoro disponibile. All’inizio della guerra erano stati mobilitati 350mila riservisti, riducendo la manodopera israeliana del 7 per cento. L’evacuazione di 125mila israeliani dalle loro case (e occupazioni) nelle terre di confine, e il blocco dell’ingresso in Israele dei 140mila lavoratori palestinesi residenti in Cisgiordania, hanno reso la situazione ancora più difficile per le imprese. Per questo il governo, a febbraio, aveva annunciato un piano per il reclutamento di 65mila lavoratori da India, Sri Lanka e Uzbekistan per dare sostegno soprattutto al settore edile. Una quota insufficiente, che ha spinto a maggio l’esecutivo a rivedere completamente la politica dei flussi, portando il tetto per i lavoratori stranieri al 3,3% della popolazione, circa 330mila impiegati. Un significativo aumento dal massimo di 210mila precedente, di cui 80mila operatori sanitari e 130mila lavoratori di altri settori.

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