Diritti

Aborto a ostacoli nelle Marche: la denuncia di una coppia rimbalzata dalle strutture per 20 giorni e costretta a cambiare Regione

È l’inizio di agosto quando il test di gravidanza di una coppia di giovani, residenti nella zona di Fermo nelle Marche, risulta positivo. La caccia alle informazioni su come abortire, preferibilmente con i farmaci, si apre immediatamente. Rimbalzati da un servizio all’altro, denunciano a ilfattoquotidiano.it, arrivano a fine percorso più di venti giorni dopo e […]

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È l’inizio di agosto quando il test di gravidanza di una coppia di giovani, residenti nella zona di Fermo nelle Marche, risulta positivo. La caccia alle informazioni su come abortire, preferibilmente con i farmaci, si apre immediatamente. Rimbalzati da un servizio all’altro, denunciano a ilfattoquotidiano.it, arrivano a fine percorso più di venti giorni dopo e in un’altra Regione. Una storia esemplare in negativo, che mostra quali possano essere gli ostacoli disseminati sulla strada per l’interruzione volontaria di gravidanza in Italia: mancanza di informazioni, negligenze dei servizi, mancato accesso ai farmaci abortivi, balzelli e attese imposte per legge o per eccesso di zelo della classe medica, mancato adeguamento delle Regioni alle indicazioni di agenzie nazionali e internazionali. Tutti fattori che concorrono al fenomeno della mobilità per aborto, che si intensifica nelle Regioni in cui i servizi sono più carenti. Come nelle Marche, dove il 30% circa di chi abortisce non può farlo nella propria zona di residenza. Qui gli ospedali continuano ad applicare un vecchio protocollo del 2016 che permette l’ivg farmacologica solo fino alla settima settimana (e non alla nona) e solo in un ospedale per provincia. Per questo, la percentuale di aborti farmacologici è inferiore al 37%, la più bassa insieme al Molise (dati ISTAT 2022).

LA DENUNCIA – Per la coppia – è la denuncia raccolta da ilfattoquotidiano.it – la prima tappa è l’Ospedale di Senigallia: qui viene rimbalzata sul consultorio per avere il documento che attesta la volontà di abortire ed iniziare la procedura, richiesto dalla legge 194 del 1978. La ricerca su internet porta ad un consultorio di Fermo. Dopo averli contattati al telefono però, viene loro comunicato che “il consultorio non si occupa di interruzione volontaria di gravidanza ma di far nascere i bambini”. Mentre ne cercano un altro, si danno da fare per capire in quale ospedale sia possibile abortire con metodo farmacologico, telefonando ai centralini dei reparti di ginecologia delle singole strutture. Da una voce che risponde ad un numero dell’Ospedale di Macerata si sentono dire che il metodo, lì, non è disponibile.

Riescono a prendere appuntamento una settimana dopo con il consultorio del distretto di Porto San Giorgio, dove hanno un colloquio con assistente sociale e psicologa: “Ci hanno chiesto il perché di questa scelta, come andasse il nostro rapporto, ci hanno detto che se volevamo portare avanti la gravidanza si poteva dare in adozione oppure ricevere un bonus”, dichiara la coppia. Alla ragazza viene quindi rilasciato un foglio: non è ancora il fatidico certificato utile per andare in ospedale, ma una sorta di relazione che deve essere consegnata alla ginecologa con cui hanno appuntamento la settimana successiva. Al momento dell’appuntamento però, si dimenticano di portare il documento e la visita con annessa certificazione viene rimandata.

Intanto i giorni passano e quando, infine, la ragazza viene ricevuta dalla ginecologa, le viene rilasciato il certificato ma senza che vi sia scritta l’urgenza, che in base alla legge la persona incinta può richiedere ma che è il medico a valutare. È un problema, perché la ragazza aveva espresso chiaramente la volontà di procedere con metodo farmacologico, ma la gravidanza nel frattempo è alla sesta settimana e cinque giorni. Nelle Marche nessuna struttura effettua un aborto farmacologico oltre le 7 settimane. Questo, però, lo scoprono con una doccia gelata solo quando si recano all’Ospedale di San Benedetto. “Lì la dottoressa disse che il certificato non aveva l’urgenza quindi non lo potevamo fare, che avremmo sforato le 7 settimane, che nelle Marche non lo potevamo fare e ci ha dato il numero di Teramo” – raccontano. È un venerdì pomeriggio e a quel numero non risponde nessuno. Riprovano lunedì mattina, qualcuno risponde al telefono, ma in quel momento non ha tempo, promette che richiamerà più tardi, ma non succede. Il giorno successivo la coppia si attacca al telefono chiamando tutti i numeri che intercettano su internet fino a che, finalmente, riescono a trovare una risposta all’Ospedale Mazzini, dove fissano l’appuntamento per la prima delle due somministrazioni previste dalla procedura farmacologica. L’ospedale Mazzini di Teramo si trova in Abruzzo e a quasi un’ora di macchina dalla loro zona di residenza.

LE PROTESTE – Secondo le attiviste che si battono per l’accesso libero all’interruzione di gravidanza anche nelle Marche, la responsabilità è innanzitutto politica. “Non c’è nessuna motivazione, né amministrativa né medica, per cui nelle Marche si resti nel limite delle 7 settimane per l’aborto con le pillole”, afferma Marte Manca, attivista di Pro-choice Rica. “E’ ridicolo che avvenga solo in alcuni ospedali, sovraccaricandone i reparti 194. Anzi, questo avviene in violazione delle Linee di indirizzo ministeriali del 2020, della direttiva dell’Agenzia italiana del farmaco del 2020, delle Raccomandazioni dell’Istituto superiore di sanità, delle Linee guida OMS e in ultimo dalle recenti raccomandazioni delle società scientifiche SIGO e AOGOI”. Per cercare di smuovere le acque si è costituito il Comitato #RU486Marche che ha avviato una raccolta firme destinata a chi è residente in regione. L’appello è “Chiediamo un aborto moderno nelle Marche” e si può firmare online fino al 4 ottobre.

Interpellato da ilfattoquotidiano.it, l’assessore regionale leghista alla sanità Filippo Saltamartini, non ha rilasciato commenti. Il 25 giugno scorso, rispondendo ad un’interrogazione di Emanuela Bora (Pd) riguardante l’inadempienza sulla procedura farmacologica, l’assessore aveva scaricato le responsabilità sui dirigenti ospedalieri, dichiarando che “la direttiva del Ministero è pienamente applicabile, i dirigenti hanno il dovere di applicarla, i cittadini se ritengono che ci siano degli atti lesivi hanno il diritto di tutelare i loro diritti, la nostra Regione si deve conformare a queste disposizioni, tanto più per il fatto che se noi non avessimo ritenuto la circolare legittima avremmo dovuto impugnarla davanti al giudice amministrativo”. Una ricostruzione che però viene smentita dai fatti: la delibera già predisposta e poi bloccata che avrebbe dovuto aggiornare le procedure in regione, la n. 34837725, non è ancora stata varata.