di Federica Vinci (co-coordinatrice My Voice My Choice Italia) e Silvia Panini (attivista Volt Emilia-Romagna e rete Pro-choice Modena)

Dal 1978, il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è costantemente al centro del dibattito politico italiano. A seconda della fazione, viene visto come un diritto fondamentale o come una colpa, un incidente, o addirittura una “seconda scelta” rispetto alla maternità. Ciò che manca in questo dibattito è il riconoscimento che si tratta di un diritto medico, non di un argomento da piegare alle ideologie politiche o ai calcoli elettorali.

La legge 194/78, che regola l’IVG, è stata al centro di polemiche continue fin dalla sua approvazione. Certo, si è evoluta, introducendo temi come l’aborto farmacologico e la telemedicina, e includendo persone transgender nel discorso. Ma questi progressi sono lenti e limitati. L’inclusione delle persone queer è confinata ai centri più progressisti, mentre l’obiezione di coscienza continua a dilagare. Ci sono regioni, come il Molise e le Marche, dove un solo medico effettua IVG, e l’aborto farmacologico stenta a diffondersi. La politica sfrutta questo tema, ignorando che qui si tratta di salute, non di un campo di battaglia elettorale.

La questione è semplice: l’IVG è un diritto alla salute, un servizio essenziale che il nostro sistema sanitario pubblico deve garantire. Ma la realtà è ben diversa. Il 64,6% dei ginecologi italiani è obiettore di coscienza, e 78 cliniche non possono praticare IVG per mancanza di personale, in violazione della legge che vieta l’obiezione di struttura. Nelle Marche, il 100% dei ginecologi è obiettore. In Molise c’è solo un medico non obiettore e, a livello nazionale, l’aborto farmacologico è disponibile in regime ambulatoriale solo in tre regioni. Questo è un fallimento: un diritto alla salute sancito dalla legge, ma di fatto negato.

La politica ha fallito. La destra ha trasformato l’IVG in una battaglia ideologica, mentre la sinistra è paralizzata dalle contraddizioni interne e dall’influenza del retaggio cattolico. Persino la legge 194/78, intitolata “Norme per la tutela sociale della maternità”, tratta l’aborto come un ripiego, relegando il diritto alla salute in secondo piano.

A maggio 2024 è partita la campagna europea “My Voice, My Choice”, un’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) che mira a raccogliere un milione di firme per chiedere alla Commissione Europea un sostegno finanziario agli Stati membri, garantendo l’accesso sicuro all’IVG. Paesi come la Slovenia e la Francia hanno inserito l’IVG nelle loro costituzioni, riconoscendo l’aborto come un diritto sanitario, non come un terreno di scontro ideologico.

Ma questa battaglia non riguarda solo Paesi come la Polonia o Malta, dove l’accesso ai servizi di IVG è pressoché inesistente. Riguarda anche le persone italiane, dalle molisane alle marchigiane e siciliane, che vivono in aree interne marginalizzate e devono affrontare ostacoli logistici e finanziari per ottenere un aborto. Non si parla solo di sicurezza fisica: abortire in Italia significa spesso subire giudizi morali, incontrare associazioni “no-choice” o medici che, pur non essendo obiettori, trattano l’aborto con condanna. Un sistema così non garantisce il benessere né fisico né mentale.

Garantire l’accesso a un aborto sicuro, libero da stigmi, non può essere oggetto di discussione. Non è un “tema divisivo”. È un diritto inalienabile. Se oggi dobbiamo ancora lottare per questo, c’è qualcosa di profondamente sbagliato nella nostra società. Ma lotteremo fino all’ultima firma. Ogni firma conta.

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