Tanti anni fa in Sicilia, quand’eri picciriddu venivi indottrinato a “u taliari” (non guardare), “u sintiri” (non sentire) e “u parrari” (non parlare). Era condizione necessaria per elaborare il bene e il male in quella che era una società omertosa, ove la subcultura mafiosa la faceva da padrona, e quindi imparavi a calibrare le tue azioni. Ma in primis ti veniva inculcato il rispetto verso cose e persone, con particolare attenzione verso gli anziani. In buona sostanza, un dogma che veniva tramandato da padre in figlio. Ovviamente, gli insegnamenti appresi da bambino non potei metterli in pratica nel mio lavoro in polizia.

Oggi voglio raccontare un episodio che mi costrinse a frenare la mia rabbia, pur avendone ben donde, di seguito al ribollir del sangue. Nel marzo 1993, in servizio alla Dia, mi trovo a New York per una missione. Nell’occorso, seguivo anche il processo a carico dei fratelli John e Joseph Gambino, che si stava celebrando nel Tribunale di Manhattan, situato vicino alla sede Fbi. I Gambino, a seguito delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, erano imputati di associazione per delinquere.

Io conoscevo già Marino Mannoia e la sua famiglia quand’ero a Palermo. L’ultima volta che l’incontrai fu quando assistetti ad alcuni suoi interrogatori fatti dal dottor Giovanni Falcone, nell’autunno del 1989 a Roma. In quel contesto, intercettavo su ordine di Falcone e da Roma alcune utenze telefoniche palermitane in uso a una famiglia mafiosa vicina al Mannoia. Immediatamente dopo la strage di Capaci, la Rai collegandosi con New York manda in onda un’intervista di un palermitano residente a Brooklyn, che con giubilo ed enfasi, mostrando i segni di vittoria, manifestava platealmente la sua felicità per la morte di Giovanni Falcone.

Quelle immagini mi colpirono particolarmente, giacché mai mi sarei immaginato che un essere umano potesse gioire per la morte di un uomo. Mi rammaricai ancor di più perché ebbi la sensazione di conoscere quella persona, per averla incontrata agli inizi degli anni 80 a Palermo, quand’ero in servizio alla Squadra mobile: praticamente lo identificai in un palermitano originario del Borgo Vecchio, ricordo ancora adesso il suo cognome. Sovente andavo nell’aula del Tribunale per assistere al dibattimento e prendevo posto proprio accanto ai familiari dei Gambino, che si esprimevano in dialetto palermitano. I fratelli Gambino erano seduti – liberi – innanzi alla Corte e quindi amici e parenti potevano salutarli. Non mi sfuggì la presenza di due palermitani, che ogni mattina andavano a salutare i fratelli Gambino con calorosi abbracci e baci. Più avanti dirò di loro.

Una mattina m’accorgo che nel gruppo dei parenti c’era seduto quel palermitano che aveva gioito per la morte di Falcone. D’istinto mi innervosii e avrei voluto scaricare quella rabbia accumulata l’anno prima, ma il luogo e la saggezza presero il sopravvento. Tuttavia, mi alzai allontanandomi dall’aula. La presenza di quel soggetto mi aveva intristito. E mentre percorrevo il corridoio per guadagnare l’uscita, incontrai il prof Alfredo Galasso, giurista e avvocato palermitano, che rimase basito nel vedermi a New York: ci conoscevamo da Palermo. Io feci il finto tonto e proseguii con passo spedito; non potei salutarlo.

Una sera, libero da impegni, mi recai in un ristorante italiano: avevo voglia di mangiare un piatto di spaghetti. Appena entro vedo che dietro il bancone del ristorante/pizzeria c’erano proprio i due tizi che ogni mattina andavano a salutare John e Joseph Gambino. Oltre a loro due, notai quattro clienti seduti in un angolo del locale che si esprimevano in dialetto palermitano. Uno dei due cuochi, per accertare le mie origini, mi chiede “vuole la birra della sua città?”. Il riferimento era la birra Messina. No grazie, lei sa bene che nella nostra città non producono birre – risposi.

Il giorno dopo racconto l’episodio agli amici dell’Fbi, rimarcando che col rituale del bacio dato ai fratelli Gambino o erano parenti o, secondo le usanze della mafia, potevano far parte di Cosa nostra.

Dopo qualche mese dal rientro da New York, la Dia su richiesta dell’Fbi mi chiede di produrre una dettagliata relazione di servizio, con particolare riferimento ai connotati somatici di quei due cuochi del ristorante/pizzeria. Non chiesi nulla sull’esito delle investigazioni. La missione a New York mi permise di fare amicizia con agenti Fbi coi quali ancora oggi sono in contatto. Con uno di loro mi sono incontrato a Palermo, nello scorso mese di settembre. Avevamo voglia di vederci e proprio nella mia città natia, dove lui aveva svolto indagini. Io raggiunsi Palermo dalla Romagna e lui dal New Jersey. L’amicizia non conosce confini.

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