Il Ministero del Commercio cinese sta esaminando motivazioni che hanno spinto la Pvh Corp, società proprietaria dei brand Calvin Klein e Tommy Hilfiger, a rifiutare di rifornirsi di cotone proveniente dalla regione dello Xinjiang. L’esito di questa valutazione potrebbe essere l’imposizione di sanzioni contro un’importante società americana che detiene interessi in Cina. Il Ministero ha riferito, in una nota riportata dalla Cnn, che la Pvh è sospettata “di aver violato i canonici principi della transizione di mercato” boicottando il cotone proveniente dallo Xinjiang, situato ai confini occidentali della Cina. La Pvh potrebbe essere iscritta, riferisce la Cnn, alla “lista delle entità non affidabili” e questa eventualità le impedirebbe di fare affari nella nazione asiatica. La lista, annunciata per la prima volta nel 2019, include cinque aziende americane ma nessuna di queste ha particolari interessi in Cina perché operano nel settore della Difesa.
Il caso Pvh è destinato a far aumentare le tensioni tra Pechino e l’Occidente ma non è la prima volta che lo Xinjiang finisce al centro delle controversie tra internazionali. La regione, popolata dalla minoranza musulmana degli Uiguri ed epicentro di pulsioni separatiste, è stata oggetto di repressioni nel corso degli ultimi decenni e le persecuzioni hanno spinto gli Stati Uniti ad adottare, nel 2021, lo Uyghur Forced Labor Prevention Act. Questo provvedimento legislativo proibisce l’importazione di prodotti realizzati tramite lavori forzati nella regione. La Volkswagen ha aperto più di dieci anni fa uno stabilimento nello Xinjiang in cambio dell’autorizzazione, da parte delle autorità, ad avviare progetti nel Guangdong. Nello stabilimento, secondo quanto riferito dal Financial Times e riportato da Formiche, non viene rispettato alcuno standard internazionale riguardante la protezione dei lavoratori e l’emergere di questi dati ha provocato danni economici e d’immagine al brand tedesco. Diverse voci critiche hanno chiesto alla Volkswagen di non essere coinvolta in queste pratiche date le evidenze sul fatto che centinaia di migliaia di uiguri e di membri di altre minoranze sono detenuti in campi di lavoro.
Lo scorso febbraio il gruppo tedesco Basf, attivo nel settore chimico, aveva annunciato che avrebbe venduto le sue quote in due joint venture operanti nello Xinjiang dopo che i gruppi per i diritti umani avevano documentato abusi, incluso il lavoro forzato nei campi. La Cina intende trasformare la regione in un centro industriale, che già sta giocando un ruolo importante nei processi di trasformazione dell’alluminio per la produzione di componenti di automobili, pannelli solari ed altri beni che entrano nelle catene di rifornimenti globali. Nello Xinjiang si trovano ingenti giacimenti di carbone e gas naturale che, nel 2019, rappresentavano il 20 per cento del potenziale energetico cinese mentre le riserve petrolifere ammontavano ad oltre un quinto della produzione nazionale. La regione produce, poi, il 20 per cento del cotone mondiale, rifornisce la Cina per l’80 per cento del suo fabbisogno interno ed è anche uno degli snodi strategici per l’iniziativa Nuova Via Della Seta lanciata da Pechino.
Lo Xinjiang è una delle regioni più grandi della Cina, con una superficie di oltre 1,7 milioni di chilometri quadrati, ed una delle più scarsamente popolate. Confina con le nazioni dell’Asia Centrale, la Russia e l’India mentre nel corso dei secoli, come chiarito dalla Treccani, è stata controllata ad intermittenza dalle dinastie imperiali cinesi e da altri popoli come il khanato di Yarkand Moghul e gli zungari. Lo Xinjiang, situato alla periferia dell’Impero cinese, si è ribellato in più occasioni al controllo di Pechino fondando un emirato indipendente per alcuni decenni nel corso dell’Ottocento e due repubbliche semi-indipendenti, grazie all’aiuto dell’Unione Sovietica, nel corso degli anni Trenta e Quaranta del Novecento. La regione è rientrata nell’orbita cinese a partire dal 1955, in seguito alla fondazione della Repubblica Popolare, ma si registrano tensioni di tipo etnico-politiche. Nel corso degli anni Novanta si sono registrate azioni insurrezionali da parte di gruppi radicali islamici e separatisti locali a cui ha fatto seguito una campagna anti-terrorismo, molto dura, da parte di Pechino. In un primo momento, come riportato da Osservatorio Diritti, il tutto è avvenuto in un clima di silenzio-assenso da parte della comunità internazionale perché erano gli anni della lotta al terrorismo post 11 settembre. Il clima di sorveglianza, repressione e violazione di diritti umani degli uiguri ha portato all’attuazione di significative misure repressive che perdurano da anni.