Si consolida, con una nuova procedura di infrazione, il poco invidiabile primato europeo dell’Italia per inadempienza verso le leggi di tutela ambientale. Questa volta nel mirino della Commissione Ue ci sono le acque di scarico dei nostri centri abitati (“agglomerati” per la Ue) che, secondo la normativa comunitaria (del 1991), dovrebbero essere raccolte, convogliate e trattate rispettando precisi limiti di tempo e di qualità onde evitare pericolosi inquinamenti di laghi, fiumi, acque costiere e sotterranee. Ma, ad oggi, come ricorda Legambiente, il tasso di conformità in Italia è pari al 56%, al di sotto della media Ue del 76% e gli scarichi di acque reflue urbane contribuiscono in modo significativo a una qualità dell’acqua non buona nel 45,8% dei corpi idrici superficiali (tra fiumi, laghi, transizione e costieri).

Il fatto più grave è che questa non è la prima ma la quarta procedura comunitaria di infrazione contro l’Italia nella stessa materia, che si aggiunge a quelle del 2004, 2009 e 2014 (complessivamente per oltre 900 agglomerati) che hanno già portato a tre sentenze di condanna della Corte europea di giustizia con l’obbligo, dal 2018, di pagare 25 milioni di euro, più 30 milioni per ogni semestre di ritardo nella messa a norma di oltre 100 centri urbani o aree sprovvisti di reti fognarie o sistemi di trattamento delle acque reflue (cioè 165 mila euro al giorno, circa 10 euro l’anno ad abitante equivalente, per gli iniziali 123 interventi in 75 agglomerati, prevalentemente dislocati in Sicilia, Calabria e Campania); e così il nostro paese ha già sborsato oltre 142 milioni di euro.

Ciò nonostante – osserva oggi la Commissione Ue aprendo la quarta procedura – e se pure vi sono stati alcuni progressi, molti agglomerati continuano a non rispettare gli obblighi comunitari; e le informazioni presentate dalla stessa Italia hanno evidenziato una diffusa inosservanza della direttiva in un totale di 179 agglomerati.

Passando ai rimedi, occorre, in primo luogo, ricordare che, così come per le bonifiche, nel 2017 il governo ha istituito una struttura commissariale straordinaria per adeguarsi alla normativa ed alle sentenze della Ue in tema di acque reflue, che ha certamente ottenuto qualche risultato ma, come abbiamo visto, non a sufficienza. E recentemente il Commissario attualmente in carica, prof. Fatuzzo, ha apertamente lamentato le difficoltà di “competenze” e di burocrazia che frenano il suo lavoro, evidenziando giustamente che occorre puntare decisamente sul riuso delle acque depurate.

Infatti – conferma Legambiente – i depuratori possono trasformarsi da un problema ad una risorsa importante per il Paese, in grado di fornire acqua, materie prime seconde ed energia rinnovabile purché si investano adeguate risorse anche nella ricerca scientifica; compresi sistemi innovativi che consentano di rimuovere inquinanti specifici in modo più efficace, così da migliorare i sistemi di monitoraggio e controllo per garantire il rispetto delle normative ambientali e individuare tempestivamente eventuali violazioni o malfunzionamenti negli impianti di depurazione.

Scelte che, fortunatamente, sono le stesse che si accinge a dettare la Ue con una nuova direttiva (iter già quasi concluso) sulle acque reflue, secondo cui gli Stati membri saranno tenuti a promuovere il riutilizzo delle acque reflue trattate provenienti da tutti gli impianti di trattamento delle acque reflue urbane, se opportuno, in particolare nelle zone soggette a stress idrico. E, nel contempo, allarga l’ambito di applicazione, introducendo nuovi limiti, nuovi obblighi di trattamento e, soprattutto, varando un regime di responsabilità estesa del produttore per garantire un equo contributo dai settori più inquinanti al trattamento delle acque reflue per microinquinanti.

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