Una decisione “viziata da difetto di istruttoria e da illogicità“, a causa dell'”irragionevole e contraddittoria svalutazione” dei titoli di una candidata rispetto a quelli dell’altra. Con queste espressioni il Tar del Lazio ha annullato la delibera del Consiglio superiore della magistratura che il 7 febbraio scorso ha nominato presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma la gip Marina Finiti, preferendola – con 19 voti contro 11 – alla reggente dell’ufficio Vittoria Stefanelli. Una scelta all’apparenza incomprensibile, criticatissima negli ambienti delle toghe, perché in base alle norme sulla dirigenza Stefanelli avrebbe dovuto prevalere senza discussioni: lavorando in Sorveglianza da 12 anni (di cui gli ultimi due da dirigente), aveva un’esperienza nel settore imparagonabile a quella della rivale, che non esercitava quelle funzioni dal lontano 1999. Il sospetto di molti addetti ai lavori, però, era che la decisione – come spesso accade al Csm – fosse stata inquinata da interessi politici e di corrente.
La Sorveglianza della Capitale, infatti, gioca un ruolo delicatissimo: decide i reclami provenienti da tutta Italia contro il 41-bis (il regime di carcere duro) e soprattutto è competente per territorio sulla maggior parte dei colletti bianchi che finiscono dietro le sbarre. Insomma, dal suo orientamento dipende la probabilità di vari detenuti “eccellenti” di ottenere i domiciliari o altre misure alternative. E negli ultimi anni, sotto la reggenza Stefanelli, quell’orientamento non era stato gradito dagli avvocati, che lo consideravano troppo severo. L’Unione delle Camere penali aveva addirittura proclamato vari scioperi ad hoc contro la Sorveglianza romana, accusata di una “clamorosa deriva della giurisdizione”, ormai “univocamente carcerocentrica”. In occasione dell’ultimo, nel giugno 2023, all’assemblea dei penalisti aveva portato la propria solidarietà anche Andrea Ostellari, avvocato e sottosegretario leghista alla Giustizia, che quindi conosceva bene le insofferenze dei colleghi.
Agli occhi del centrodestra, poi, la giudice Stefanelli aveva un’imperdonabile macchia sul curriculum: era lei, infatti, la presidente del collegio di Sorveglianza che nel 2017 disse no alla richiesta dei legali di Marcello Dell’Utri di sospendere per motivi di salute l’esecuzione della sua condanna a sette anni di carcere per concorso in associazione mafiosa. In quell’ordinanza, i magistrati scrissero che le patologie di cui soffriva il fondatore di Forza Italia potevano essere “adeguatamente affrontate” a Rebibbia, “non emergendo criticità o urgenze tali da rendere necessario il ricorso a cure o trattamenti non attuabili in regime di detenzione ordinaria”. Il niet aveva suscitato scandalo tra i parlamentari azzurri, che definivano la decisione “rivoltante” e accusavano le toghe di voler condannare Dell’Utri a morte. Lui stesso, che è tuttora vivo e vegeto, cavalcava l’onda: “Preso atto della decisione del Tribunale che decide di lasciarmi morire in carcere, ho deciso di farlo di mia volontà adottando lo sciopero della terapia e del vitto”, annunciava (decisione poi revocata dopo poche settimane).
Al Csm, quindi, la rodata maggioranza di centrodestra si era mossa per negare alla giudice – considerata inaffidabile – la presidenza della Sorveglianza. Il veto era andato a beneficio di Finiti, vicina alla corrente conservatrice di Magistratura indipendente (Mi), allineata con l’attuale governo. Per lei avevano votato i sette consiglieri togati di Mi, i quattro “moderati” di UniCost, i sei laici in quota Fi, FdI e Lega, Ernesto Carbone di Italia viva e la prima presidente della Cassazione Margherita Cassano (anche lei di Mi). Per Stefanelli i sette togati delle correnti progressiste (sei di Area più Mimma Miele di Md), i laici Roberto Romboli (Pd) e Michele Papa (M5S) e gli indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda. Quest’ultimo, storico giudice anti-correnti e unico consigliere eletto grazie al sorteggio, definisce la vicenda “un’altra brutta pagina del nominificio“: “Nonostante le regole che presidiano (o che dovrebbero presiedere) alle nomine, il sistema delle correnti – ancora padrone incontrastato dell’organo consiliare – persiste nel piegare la legalità alla sodalità, con inevitabile asservimento dei magistrati che vogliano far carriera”, denuncia. E rilancia la soluzione che propone da anni, cioè la “turnazione” dei capi degli uffici, sottraendo il potere di nomina al Csm: “Solo la rotazione negli incarichi direttivi può sradicare questo fenomeno, perché solo la rotazione garantisce il rispetto dei principi della soggezione dei magistrati soltanto alla legge e della loro pari dignità”. Ora il Consiglio potrà impugnare la decisione del Tar al Consiglio di Stato: in caso di conferma dell’annullamento, dovrà procedere a una nuova valutazione.