Non siamo alle colonne di detenuti incatenati a spaccare pietre ma neppure troppo lontano. L’Alabama, stato del sud degli Stati Uniti con lunga storia di schiavismo, ha deciso di mettere a reddito i detenuti nei penitenziari statali. Per la gioia di catene come Mc Donald’s, Kfc, Wendy’s etc, grandi utilizzatori di questa forza lavoro a bassissimo costo. L’Alabama non prevede un salario minimo, i datori di lavoro possono quindi scendere sotto i 7,25 dollari l’ora previsti a livello federale. Paghe da fame, insomma. Per di più l’Alabama Department of Corrections tiene per se il 40% della retribuzione dei detenuti a cui addebita anche il costo del trasporto sul luogo di lavoro.

La differenza rispetto al passato è che chi rifiuta di farsi impiegare rischia grosso. Va incontro a penalizzazioni sui permessi premio, possibili trasferimenti in celle di isolamento, sino alla minaccia di venire trasferiti in penitenziari di massima sicurezza, più duri e più pericolosi. Così, ogni giorno, decine e decine di detenuti vengono di fatto obbligati a salire sugli appositi bus con cui sono trasportati nei luoghi di lavoro per prestare servizio per 12 e più ore al giorno. Contro questa pratica, riporta il sito statunitense Jacobin, alcune organizzazioni no profit hanno intentato causa, portando all’attenzione dell’opinione pubblica quello che il sistema carcerario dell’Alabama chiama “detenuti in leasing”.

Il Center for Constitutional Rights, una delle due associazioni che si sono rivolte ai tribunali, nel ricorso scrive che ““In Alabama, la schiavitù e la servitù involontaria non sono finite con la guerra civile ma si sono spostate dalle piantagioni ai penitenziari. Generazione dopo generazione lo stato ha mantenuto in vigore un sistema di lavoro forzato finalizzato ad estrarre profitti da neri e poveri e a mantenerli in uno stato di sottomissione”. Il primo ricorso è stato respinto dal tribunale dell’Alabama ma l’associazione sta lavorando ad un appello.

Quello dell’Alabama non è né l’unico né il primo caso ma si distingue per la coercizione a cui vengono sottoposti i detenuti, di fatto obbligati a partecipare al programma. Nel 2014, in Colorado, 1.600 prigionieri furono impiegati presso le catene di montaggio di industrie private di mobili, di riparazioni auto e della difesa, con una paga al di sotto di un dollaro l’ora. Nessuno sciopero, nessun sindacato, paghe bassissime. Detenuti sono stati “appaltati” anche a Boeing, Starbucks e Victoria’s Secrets.

La messa a reddito di penitenziari e detenuti è ormai un grande business. Sempre più spesso la gestione delle prigioni è affidata a gruppi privati che ricevono una somma per ogni prigioniero. Sono sorti da tempo gruppi specializzati nel settore come Geo Group, che vale in borsa 1,8 miliardi di dollari, o CoreCivic che ne vale 1,4. Operano per conseguire profitti che puntualmente arrivano. Non a caso tra i principali azionisti ci sono i soliti colossi della finanza come Blackrock, Vanguard, Fidelity, State Street, Jp Morgan, etc.

La privatizzazione della sicurezza è un ramo di attività che piace molto all’ex presidente Donald Trump. Quando vinse, nel 2016, le azioni delle società del comparto balzarono del 40% Negli Stati Uniti si contano circa 2,3 milioni di detenuti a cui si aggiungono 5 milioni di persone sottoposte a varie misure di sorveglianza. Il tasso più alto del mondo in rapporto alla popolazione, in Cina i reclusi sono “appena” 1,7 milioni. Tra il 2000 e il 2018 la popolazione carceraria americana è aumentata del 40% e negli ultimi 40 anni di un impressionante 900%.

Più in generale, da tempo negli Usa è in corso un tentativo, in parte riuscito, di rendere più lasche le normative sul lavoro. Lo stesso stato dell’Alabama, insieme ad altri 10, ha varato leggi per indebolire le norme contro il lavoro minorile. Il loro impiego, che rimane illegale, è quindi triplicato in tre anni, con le catene di fast food spesso in prima fila nell’utilizzo di questa forza lavoro a bassissimo costo.

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