Dopo l’amarcord dei Navigli dissotterrati, con cui vi ho tediato la scorsa settimana, non potevo trascurare un altro sogno nel cassetto, il daylighting della foce del Bisagno. Il prossimo lunedì cade il 54esimo anniversario della grande alluvione genovese del ‘900 che, dopo più di 100 anni, faceva seguito all’ancor più terribile evento del 1822. E cade il decennale di Bisagno, Il fiume nascosto, il fortunato saggio che dedicai a questo torrente.
Sul Bisagno, il torrente genovese assassino a sua insaputa, tre ponti scandiscono la memoria dei baby boomer. La mia generazione ha giocato a calcio sui campetti improvvisati nel greto del torrente, vissuto l’alluvione del secolo (7 ottobre 1970) con la pala in mano, frequentato una delle migliori università dell’epoca per poi disperdersi nel mondo. Per noi, Genova lontana è nostalgia e rabbia. Buenos Aires e Genova ospitano l’unico vero derby della Terra, quello che abbiamo visto massacrare dagli scontri pochi giorni fa. E a Genova risuona una musica malinconica che attraversa il cielo più luminoso dell’universo.
Da liceale, ogni mattina attraversavo il torrente sul Ponte di Sant’Agata. Aveva ancora sei arcate, sopravvissute alla progressiva stenosi dell’alveo fluviale. In origine ne contava 28, costruite per collegare il convento omonimo al Borgo degli Incrociati (Figura 1). Molto più a monte, c’è Ponte Carrega, inaugurato nel 1788.
Anch’esso è stato interrato in gran parte dalla modernità e le residue arcate si sono miracolosamente salvate dalla soluzione finale che le voleva abbattere, edificando un moderno ponte bow-string ispirato ai ponti del Ventennio (Figura 2). A metà strada, c’è Ponte Monteverde, di fronte al cimitero di Staglieno, forse il più intrigante d’Europa nel suo genere.
Il ponte fu terminato nel 1934 e conserva i lampioni di Gino Coppedè, il fantasioso architetto Art Nouveau che costruì più di 50 edifici in città ai primi del Novecento (Figura 3). Quelle preziose luci illuminavano Ponte Bezzecca, cancellato dalla copertura del torrente che venne edificata proprio negli anni ’30. I genovesi non gettano via niente. Spesso fanno bene. Ma non sempre.
Già, la copertura. Si poteva eliminare il tappo assassino, quella maledetta copertura che rincula l’onda di piena, e restituire il fiume alla sua gente? All’inizio del millennio feci un sogno. L’architetto Giovanni Spalla, autore della rinascita di Palazzo Ducale devastato dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale, condivise con me questo sogno: sostituire la vecchia copertura fascista con un’opera capace di ripristinare la visione e il valore dell’acqua, preservando la funzione viabilistica. All’epoca, il Comune di Genova aveva emesso un bando per la progettazione di una nuova copertura, giacché la vecchia pareva un po’ usurata. Poteva essere la volta buona, l’ultima occasione. Il nostro progetto prevedeva una sequenza di sottili colonne, alte più di 50 metri, a supporto di un ventaglio di stralli che avrebbero sostenuto la membrana stradale. Immaginavamo una sequenza di vascelli che avrebbe cadenzato l’intero viale tra il mare e l’architettura romantica della stazione ferroviaria (Figura 4).
Il daylighting può essere declinato anche in modo coraggioso. Dal punto di vista idraulico, la soluzione avrebbe evitato che l’entrata in pressione il corso d’acqua durante gli eventi estremi, evitando le drammatiche conseguenze sperimentate più volte dal 1945 in poi. Sotto il profilo paesaggistico, l’opera, che lasciava aperto un ampio sguardo sull’acqua, avrebbe potuto diventare un landmark contemporaneo non banale. Secondo Le Corbusier, l’architettura “è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori dei problemi di costruzione, al di là di essi. La Costruzione è per tener su: l’Architettura è per commuovere”. In pratica, si trattava di una proposta di daylighting funzionale alla conservazione degli assi viabilistici in un contesto molto sensibile e delicato.
Purtroppo, tutto rimase un sogno. La commissione comunale ci classificò agli ultimi posti. Evidentemente non eravamo abbastanza competenti né sotto il profilo dell’architettura né in materia idraulica. E, così, la copertura è stata rifatta sostanzialmente tal quale, secondo lo schema a quattro canne larghe in tutto meno di 48 metri
(Figura 5). Uno schema caro all’idraulico fascista Gaudenzio Fantoli — mio lontano predecessore in cattedra a Milano — che tal quale l’aveva ideata nonostante che il torrente, all’imbocco della copertura poco a valle di Sant’Agata, sia ancora largo quasi 80 metri.
Nel corso degli anni ho assistito al declino della capacità progettuale degli organismi pubblici. Se negli anni ‘30 del secolo scorso un ufficio tecnico comunale era in grado di progettare grandi opere come la fognatura a maglie di Milano, archetipo di resilienza, o la dissennata ma robusta copertura del Bisagno a Genova, oggi la mano pubblica non è più in grado di progettare cose concrete, ma solo di affidarsi ad altri. E neppure sa giudicare che cosa sia bello, funzionale, innovativo.
Se non sai progettare, i criteri diventano burocratici e si perde di vista la sostanza, si dimentica che la scienza delle costruzioni idrauliche non è una opinione. Chi affiderebbe la propria prostata a uno psichiatra? Il potere e la sua appendice burocratica spesso lo fanno. Magari senza accorgersene, poiché il rasoio di Hanlon è sempre in agguato: “Non attribuire mai a malafede quel che si può ragionevolmente spiegare con la stupidità“.