Il cambiamento climatico è uno dei problemi più urgenti e drammatici dell’umanità. Ma collegarlo al rischio di un’invasione di migranti è “una pratica pericolosa e fuorviante basata su miti e non su fatti”. Ad affermarlo, in un libro imponente che riassume trent’anni di ricerche sui fenomeni migratori, è il sociologo Hein De Haas, nel libro Migrazioni. La verità oltre le ideologie. Dati alla mano (Einaudi), uscito anche in Italia all’indomani della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (29 settembre).

Il libro decostruisce ventidue miti relativi all’immigrazione e uno di questi è proprio il legame tra disastri ambientali e la migrazione internazionale di massa. Il punto, spiega il sociologo, è che “la migrazione dipende da un’ampia gamma di ragioni, per cui raramente può essere ricondotta agli effetti di un solo cambiamento, come quello climatico. L’ambiente è solo uno dei fattori e ha un impatto indiretto. Le vere spinte restano i processi economici, politici e sociali, oppure ovviamente la violenza”.

Le persone povere non si spostano. Oppure per pochi chilometri

Cinque, più precisamente, sono i motivi per cui, secondo il sociologo, è difficile che il cambiamento climatico porterà a una migrazione di massa. Primo, il cambiamento climatico, per quanto grave, è un fenomeno a insorgenza lenta, dà cioè alle persone il tempo di adattarsi agli stress ambientali. Secondo, le persone possono ricorrere a diverse strategie di adattamento, come sistemi di difesa dalle alluvioni, sistemi d’irrigazione e colture resistenti alla siccità.

Terzo, in caso di alluvioni o altri disastri ambientali, la maggior parte delle persone si sposta di pochi chilometri, per esempio nel quartiere accanto, nel villaggio o nella città vicini. Quarto, questo tipo di spostamenti tendono a essere per lo più temporanei, perché le persone in genere desiderano tornare a casa il prima possibile. Quinto, la maggior parte delle popolazioni dei Paesi più poveri al mondo non ha le risorse per spostarsi su lunghe distanze.

Ma lo studio dell’antropologo olandese non si occupa solo di migrazioni e clima. Il libro si apre contestando l’abuso di immagini di carovane che tentano di raggiungere il confine tra Messico e Stati Uniti, degli africani stipati in imbarcazioni precarie alla deriva nel Mediterraneo, dei clandestini che attraversano la Manica. Questa narrazione di tv e media racconta una immigrazione che sembra esserci sfuggita di mano, a causa di “una micidiale combinazione di povertà, diseguaglianze, violenze, oppressione politica, cambiamenti climatici, uniti a una crescita demografica esasperata”. È una visione che però, che riduce la migrazione a una fuga disperata dalla miseria – mentre spesso è una scelta libera e consapevole e la maggior parte dei migranti attraversa le frontiere senza violare nessuna legge – e che riduce i migranti a sole vittime da salvare da trafficanti e scafisti. Il problema è che insistere su queste immagini, inoltre, secondo De Haas, ci spinge a pensare che l’integrazione non sia possibile e che non restino che misure drastiche e controlli alle frontiere.

L’immigrazione non è né buona né cattiva

Due sono i punti di vista che il sociologo vuole decostruire. Quello basato su restrizioni e i respingimenti, che non i dissuadono i rifugiati dal partire. È la visione della destra, “contro la migrazione”. Un’idea insensata, spiega l’esperto, visto che essere contro le migrazioni sarebbe come affermare di essere “contro l’economia”.

Ma anche sostenere, come spesso fa una parte del mondo progressista, che gli immigrati siano la soluzione a problemi come la carenza di manodopera e l’invecchiamento della popolazione, dunque “servono”, è semplicistico e fuorviante. Il fatto è che l’immigrazione non è né buona né cattiva, mentre noi abbiamo un dibattito sempre più polarizzato, i cui esiti sono fallimentari, visto che nessun politico è riuscito ad arginare l’immigrazione, anche illegale, né è in grado di prevenire lo sfruttamento dei migranti.

I dati, su cui tutto il libro si basa, ci dicono che la migrazione non è al massimo storico né in aumento. Di fatto non c’è alcun un aumento degli ingressi illegali visto che questi ultimi rappresentano circa il 10% di tutti i migranti internazionali. De Haas chiarisce che a livello numerico i migranti internazionali sono passati dai 93 milioni del 1960 ai 247 del 2017, ma la popolazione è passata da 3 miliardi a 7,6 quindi la quota è stabile intorno al 3%, oltre al fatto che molte migrazioni in passato non erano tracciate. I rifugiati rappresentano invece lo 0,3% della popolazione mondiale.

Per mettere i dati in prospettiva, basti pensare che circa 48 milioni di europei hanno lasciato le loro nazioni di origine solo tra il 1846 e il 1924, circa il 12% della popolazione. Tra il 1869 e i 1940 sono emigrati in Nord Europa e nel Sud e Nord America circa 16,4 milioni di italiani, nientemeno che il 50% della popolazione italiana nel 1900. Ebbene, i 9,5 milioni di messicani nati in Messico che vivevano all’estero nel 2017 (compresi quelli senza documenti) rappresentavano il 7,5% della popolazione messicana, mentre i 3 milioni di turchi nati in Turchia che risiedevano fuori dal Paese rappresentavano il 3,8% della popolazione turca.

Bisogno di manodopera e retorica anti-immigrazione

Un’altra contraddizione stridente che il libro mette in luce è il fatto che proprio i politici più inflessibili contro gli immigrati sono quelli che continuano a chiudere un occhio davanti all’impiego in massa di lavoratori illegali. Questo è quello che l’autore chiama il “trilemma della migrazione”. Le democrazie liberali sono intrappolate “tra il desiderio politico di porre un freno all’immigrazione, l’interesse economico di avere una maggiore immigrazione e l’obbligo di rispettare i diritti umani di migranti e rifugiati”.

E di fatto il vero elefante nella stanza di tutti i dibattiti sulla migrazione, secondo l’esperto, è il fatto che interi settori delle economie di tutto il mondo industrializzato sono diventati dipendenti dalla forza lavoro immigrata.

Questo vuol dire anche che i governi possono influenzare efficacemente l’immigrazione solo se cambiano le realtà economiche che creano la domanda di manodopera, attuando riforme fondamentali in materia di politica economica e del mercato del lavoro. Ma nessuno lo fa ed è questa, per De Haas, la grande ipocrisia. Per nulla lungimirante, inoltre, perché bisognerebbe invece cominciare a porsi il problema del fatto che, a causa di motivi demografici e di altri tipo, l’offerta illimitata di manodopera a basso costo potrebbe diminuire o non esserci più. Altro, insomma, che invasione incontrollata e disperata.

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