Israele non ha ancora deciso come, ma reagirà. Lo farà, pare, coordinandosi con gli Stati Uniti, il che potrebbe contribuire a contenere le velleità del governo Netanyahu. L’opzione che più spaventa però è già sul tavolo del gabinetto di sicurezza: a Tel Aviv si valuta di rispondere all’attacco missilistico lanciato il 1° ottobre dall’Iran colpendo infrastrutture strategiche, come impianti petroliferi o gasieri, o addirittura i siti nucleari di Teheran. L’ipotesi più accreditata è che a finire nel mirino potrebbero essere non direttamente i siti di produzione, ma le strutture difensive o strategiche che si trovano nei paraggi.

E’ già accaduto, in questo conflitto innescato dagli attentati del 7 ottobre che rischia di far esplodere il Medio Oriente. Bisogna tornare alla notte tra il 13 e il 14 aprile quando, dopo aver avvertito gli Usa, l’Iran scagliò contro Israele centinaia tra droni, missili balistici e da crociera che finirono nella stragrande maggioranza intercettati dai sistemi di difesa di Tel Aviv. Sei giorni dopo, la mattina di venerdì 19, tre velivoli senza pilota vennero abbattuti “senza alcun danno” dalle difese di Teheran su Isfahan, nell’entroterra iraniano. Subito dopo un missile colpì un sistema antiaereo S-300 di fabbricazione russa nella base aerea di Shekari, che si trova a nord-ovest della città. L’attacco, riportava il New York Times, “ha danneggiato o distrutto il radar ‘flap-lid’, che viene utilizzato nei sistemi di difesa aerea S-300 per tracciare i bersagli in arrivo” e Iran International pubblicava un confronto tra due foto satellitari scattate prima e dopo il raid che avrebbero mostrato danni alla “parte centrale del sistema“.

Si sarebbe trattato di una “routinaria” operazione delle Idf , se non fosse che l’area di Isfahan ospita diverse importanti strutture militari, tra cui impianti di arricchimento dell’uranio. L’impianto ospita tre piccoli reattori di ricerca forniti da Pechino e si occupa di diverse attività previste dal programma nucleare civile di Teheran, tra cui la produzione di carburante. Il complesso, riferisce l’Institute for Science and International Security, si trova a soli 22 km a sud della base di Shekari, ospita impianti capaci di produrre centrifughe e “l’Iran ha scelto di immagazzinare qui una grande porzione delle sue scorte di uranio altamente arricchito al 60% e al 20%”. Non solo. A circa 100 km a nord sorge un’altra struttura critica, l’impianto di arricchimento di Natanz. “Il sito – rileva il think tank di Washington che monitora la diffusione di armi e impianti nucleari – ospita la maggior parte delle centrifughe a gas del paese, tra cui circa 6.300 di quelle più avanzate”. Una parte della riserva più pericolosa a disposizione di Teheran, quella di uranio arricchito al 60%, “viene prodotta nell’impianto pilota di arricchimento del combustibile (Pilot Fuel Enrichment Plant, PFEP) fuori terra di Natanz”.

In patria l’idea riscuote il consenso delle destre. Martedì ai microfoni della Cnn l’ex premier Naftali Bennett ha parlato di un’“opportunità irripetibile in 50 anni”. “Dobbiamo smantellare il programma nucleare iraniano, dobbiamo attaccare le strutture energetiche dell’Iran e dobbiamo attaccare il regime stesso, subito”, ha detto Bennett, sottolineando che Hezbollah e Hamas si trovano in un punto di debolezza storico. “Israele ha sempre fatto dichiarazioni di questo tipo, il regime sionista è barbaro e Netanyahu si comporta come un vampiro mentre il mondo intero protesta contro questo regime”, ha risposto sull’argomento Mohammad Eslami, capo dell’Organizzazione dell’Iran per l’energia atomica, secondo cui con l’attacco del 1° ottobre, le forze armate iraniane “hanno creato la deterrenza necessaria” contro presunti piani di Israele per colpire i siti nucleari di Teheran.

Israele ha a lungo chiesto alle amministrazioni degli Stati Uniti di attaccare gli impianti nucleari iraniani o di sostenere un attacco israeliano, ricevendo puntualmente da Washington solo risposte fredde o negative. Ma ora da oltreoceano arrivano segnali secondo cui il vento rischia di cambiare. Ieri ha ventilato l’ipotesi William Cohen, segretario alla Difesa nell’amministrazione Clinton dal 1997 al 2001. E comincia a parlarne anche la classe dirigente attuale: “L’Iran ha commesso un errore, ha messo i suoi impianti nucleari sul tabellone come bersaglio“, ha scritto il 1° ottobre il deputato democratico Jared Moskowitz in risposta a un post dell’Open Source Intelligence Monitor che citava funzionari statunitensi secondo i quali Israele avrebbe “assolutamente reagito” all’attacco del 1° ottobre.

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