Fino a qualche anno fa poteva accadere che un’impresa chiedesse al neoassunto di firmare un foglio in bianco dove in seguito, alla bisogna, il datore avrebbe aggiunto la data delle sue dimissioni, volontarie. Si trattava delle cosiddette “dimissioni in bianco”, un licenziamento mascherato contro il quale la legge Fornero del 2012 aveva dettato norme stringenti, poi confermate nel 2015 dal Jobs Act del governo Renzi, che rendevano obbligatoria la comunicazione formale della volontà di dimettersi. Norme che il ddl lavoro, già in parte approvato dalla maggioranza di governo alla Camera, decide ora di indebolire, facilitando di fatto i licenziamenti. A giustificare la modifica, secondo il governo, era la necessità di contrastare i “furbetti” che, invece di dimettersi, tentano di farsi licenziare per accedere alla Naspi, l’indennità di disoccupazione preclusa a chi lascia il posto per sua decisione. “La solita storia: si dice di voler contrastare sacche di illegalità e si finisce per colpire i più deboli”, commenta l’avvocato giuslavorista Bartolo Mancuso. Più che legittimo, dunque, domandarsi quali siano le reali intenzioni del governo. Perché, spiega il legale, “come accadeva in passato, un lavoratore che viene mandato via oralmente potrà essere accusato di essersi dimesso, tutto con una semplice comunicazione all’Ispettorato”.

La nuova norma – Aggiungendo un comma all’articolo 26 del Jobs Act (d.lgs 151/2015), l’articolo 19 del nuovo ddl 1532-bis stabilisce che “in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo” (art. 19 c. 7-bis). In altre parole, la norma esclude a priori che dietro l’assenza ingiustificata possa esserci un intervento del datore per allontanare il dipendente. Peggio: dà per scontata la volontà del lavoratore di interrompere il rapporto di lavoro, anche se non è mai stata manifestata. “Obbligando a comunicare formalmente le proprie dimissioni, la legge Fornero e il Jobs Act avevano deciso di garantire la reale volontà del lavoratore, che va assolutamente garantita, evitando così che dipendenti cacciati venissero dimissionati”, spiega Mancuso.

Dimissioni o licenziamento? – Per capire a cosa si espongono i lavoratori con il ddl lavoro appena approvato, Mancuso utilizza un esempio che, assicura, è più realistico di quanto si creda. “Pensiamo a un lavoratore che non riceve lo stipendio da mesi, o che opera in un contesto dove non vengono rispettate le norme sulla sicurezza. Immaginiamo che decida di fare una rimostranza e che il datore gli risponda, come purtroppo accade, “o così o te ne vai. Anzi, prendi le tue cose e vattene””. A quel punto che succede? “Il lavoratore obbedisce e si fa cacciare, ma dopo 15 giorni si trova dimissionato”. E non licenziato “con tutte le garanzie, comunicazione scritta, contestazione disciplinare, fino all’onere della prova a carico del datore ecc.”, come il giuslavorista ha spiegato sul sito dell’Associazione Comma 2. Prima della Fornero e del Jobs Act, l’unica possibilità per il lavoratore era la difficile, se non impossibile, prova di essere stato cacciato oralmente. Modificando la normativa, il ddl del governo rimette l’onere della prova a carico del lavoratore. “Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”, dice infatti il nuovo comma.

L’attacco alla Costituzione – Durante l’esame del provvedimento, che proseguirà la settimana prossima prima di passare al Senato, gli emendamenti delle opposizioni sono riusciti solo a limitare il danno, portando da 5 a 15 i giorni di assenza ingiustificata. La capogruppo dem Chiara Braga e Cecilia Guerra hanno parlato di “tentativo di ripristinare la pratica dei licenziamenti camuffati da dimissioni volontarie”. Il Pd ha anche provato, senza riuscire, a rendere obbligatoria la verifica della comunicazione del datore da parte dell’Ispettorato, che invece non deve ma “può verificare”, dice il testo approvato. Non proprio una garanzia vista la carenza d’organico in cui versa l’Inl. “Ma la gravità della riforma è nella rinuncia al riconoscimento della reale volontà del lavoratore, che invece viene nascosta presumendo che sia addirittura il suo contrario, trasformando un licenziato in un dimissionario”, denuncia Mancuso. E non perché il datore non possa licenziare quel dipendente: “Se l’assenza è ingiustificata, può sempre licenziarlo. La norma introdotta, invece, sembra voler dire che il lavoratore è un furbo dal quale l’impresa va tutelata a prescindere, anche a costo di chiamare dimissionario un licenziato”. Un altro modo di scardinare una Costituzione che – ricorda Mancuso – “cita le parole “lavoro” e “lavoratori” 28 volte, di cui tre nei principi fondamentali. La parola “imprenditore”, mai”. “L’essenza stessa del diritto del lavoro è nella natura diseguale del rapporto, dove il soggetto debole è il lavoratore che in quanto tale va tutelato e a questo principio si ispirano le norme costituzionali”.

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