In un pianeta sempre più caldo, lo spreco alimentare è benzina sul fuoco. Dal campo alla tavola (e alla discarica), si rende responsabile di un’elevata produzione di emissioni di gas serra – tra cui ossido nitroso, ozono, CO2 e metano – principali responsabili del riscaldamento globale. “Se classificato come paese, lo spreco alimentare sarebbe il terzo maggior emettitore al mondo”, ha scritto in un documento di marzo il Parlamento europeo. Nella sola Unione europea, lo spreco alimentare costituisce circa il 16% delle emissioni di gas serra. Se poi il cibo non consumato finisce deplorevolmente in discarica, decomponendosi produce gas serra nella misura dell’8-10% delle emissioni globali – come riporta il WWF. La prevenzione è quindi d’obbligo, perciò a livello globale i governi si sono mossi per cercare soluzioni a protezione dell’ambiente. Ma con quale efficacia? I ricercatori della University of California Rady School of Management, autori dello studio pubblicato su Science lo scorso 12 settembre, hanno voluto vederci chiaro e hanno deciso di analizzare i risultati di cinque stati Usa.

Sotto esame – A finire sotto la lente dei ricercatori, cinque stati che promulgarono le prime leggi in materia: California, Connecticut, Rhode Island, Vermont e Massachusetts. Gli studiosi hanno considerato un periodo di quattro anni, dal 2014 (quando entrarono in vigore le leggi) al 2018. Le norme in questione vietano a ristoranti e supermercati di gettare in discarica il cibo invenduto (secondo il gruppo di ricerca ReFed, corrisponderebbe al 30% delle milioni di tonnellate prodotte nel paese). Paragonando ognuno di questi cinque stati con stati simili, ma privi di leggi sugli scarti alimentari, gli studiosi hanno potuto stimare la quantità di cibo non consumato che, in assenza di divieti, avrebbe finito i suoi giorni in discarica. Si aspettavano una riduzione delle emissioni del 10-15%, ma non è andata così. Nonostante i divieti, in media la riduzione dello spreco non ha superato il 3%. Un risultato deludente, considerato che nel conteggio era compreso il Massachusetts che, da parte sua, ha ridotto gli sprechi del 7%, arrivando poi gradualmente al 13,2%.

I fattori determinanti – I ricercatori hanno elencato tre fattori a loro parere decisivi per il risultato ottenuto in Massachusetts. Una migliore rete di infrastrutture di compostaggio: lo stato è quello che dispone del maggior numero di impianti per kmq. Così, per gli operatori del settore è più facile smaltire correttamente il cibo. Secondo: la semplicità della legge: lo scarso numero di eccezioni ed esenzioni permette di comprendere meglio i termini delle norme e di rispettarli. Da ultimo, controlli e multe. Oltre ad aumentare le sanzioni: le autorità hanno condotto molte più ispezioni rispetto agli altri stati. In pratica, il Massachusetts ha messo le aziende nelle condizioni migliori per rispettare la legge, ha controllato che questa venisse davvero osservata e multato chi non lo faceva. Così le autorità hanno cambiato le abitudini delle aziende e ridotto nettamente le emissioni di metano che, negli anni successivi all’entrata in vigore della legge, sono scese di quasi un quarto per ogni tonnellata di cibo correttamente smaltita. E non si tratta di progressi tecnologici nella cattura del metano, assicurano i ricercatori, ma proprio degli effetti dei divieti imposti.

Ancora molta strada da fare – Negli anni successivi al 2018, però, anche gli altri stati esaminati hanno fatto dei progressi. Per esempio il Vermont, le cui leggi interessano anche l’ambito domestico, ha ridotto del 13% il tonnellaggio destinato alla discarica e aumentato contestualmente il cibo destinato al compostaggio, all’alimentazione degli animali o alla trasformazione in digestato – sottoprodotto della digestione anaerobica di biomasse vegetali da parte di microorganismi, utilizzabile come fertilizzante. Nel 2022 (gli ultimi dati disponibili) la California ha salvato dalla discarica 11,2 milioni di tonnellate di cibo. Tuttavia, va considerato che lo smaltimento è l’ultimo anello di una lunga catena che parte dal campo. Infatti per produrre gli alimenti si usano prima di tutto dei terreni agricoli (per quasi un terzo sfruttati inutilmente, se il cibo viene gettato), risorse come l’acqua e i carburanti – necessari per i mezzi agricoli e per i camion che distribuiscono i prodotti. Perciò si dovrebbe cominciare a correggere lo spreco fin dalle fasi precedenti. Ma nonostante le campagne di sensibilizzazione, a dimostrare che andiamo nella direzione sbagliata sono i dati del recente Rapporto Internazionale Waste Watcher 2024: “Lo spreco alimentare nei Paesi del G7: dall’analisi all’azione”, curato dall’Osservatorio Waste Watcher International-Campagna Spreco Zero, dall’Università di Bologna e dall’Ipsos. In Italia il fenomeno dello spreco è aumentato del 45,6% rispetto al 2023: in media, ognuno di noi getta settimanalmente 683,3 g di cibo (contro i 469,4 grammi dello scorso anno). In particolare, finiscono male frutta e verdura (rispettivamente 27,1 g e 24,6 g), ma anche pane fresco (24,1 g), insalata (22,3 g), cipolle, aglio e tuberi (20 g). È una magra consolazione pensare che tutti questi alimenti possano finire in una stazione di compostaggio piuttosto che in una discarica.

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