A quasi due mesi dall’omicidio israeliano di Ismail Haniyeh a Teheran, l’attesa risposta iraniana è arrivata. Una risposta “cumulativa”, come si legge sul comunicato delle Guardie della Rivoluzione diffuso alcuni minuti dopo il lancio di circa duecento missili balistici verso Tel Aviv e altre aree del centro di Israele, che intendeva vendicare non solo l’assassinio dell’ex leader del Politburo di Hamas, ma anche quelli – avvenuti lo scorso 27 settembre nel corso di intensi bombardamenti su Beirut con bombe “bunker buster” – del segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e del generale iraniano Abbas Nilforoushan. Dopo l’attacco, nel quale diverse decine di missili lanciati hanno impattato nei pressi o su alcune infrastrutture militari – le basi aeree di Nevatim, Tel Nof e Hatzor – e di intelligence – il quartier generale del Mossad, nel nord di Tel Aviv -, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha promesso una ulteriore risposta, “nel modo e al momento giusto“, come ha poi ribadito il portavoce delle Idf, Daniel Hagari.

Teheran è cosciente della risposta israeliana – non a caso la Guida Suprema Ali Khamenei è già stata trasferita in un luogo protetto – che potrebbe prendere di mira le infrastrutture militari e nucleari dell’Iran. Un altro obiettivo potrebbe essere l’isola di Kargh, il cui porto è il principale centro di esportazione del greggio iraniano, che al 95% passa da lì. A che scenario si va incontro, nel caso di una risposta israeliana?

L’Iran non è dotato di difese adeguate contro la potenza di fuoco israeliana. Teheran da tempo è interessata alle batterie anti missile russe s-400 ma non ne è ufficialmente provvista. I suoi sistemi di difesa anti aerea sono di produzione locale, cioè i Bavar 373, paragonabili alle batterie s-300. È possibile che alcuni strike israeliani venissero dati per scontati – probabilmente anche prima dell’ultimo attacco – anche perché non è sullo scontro frontale che l’Iran fa affidamento ma sul rafforzamento della sua profondità strategica, e quindi delle risposte asimmetriche che può recapitare attraverso diversi attori non statali, da Hezbollah agli Houthi, passando per le milizie irachene.

Non bisogna sottovalutare un aspetto, nella declinazione dell’escalation tra Iran e Israele: Tel Aviv, colpendo Teheran, aprirebbe il terzo fronte, ed è complicato immaginare possa sostenerlo senza la partecipazione americana. Se la partita a Gaza è tutt’altro che chiusa, nel sud del Libano sembra appena iniziata – le Idf hanno affermato che potrebbe durare “diverse settimane” – e non nel migliore dei modi: alle prime luci dell’alba del 1 ottobre, le truppe speciali israeliane dell’Unità “Egoz” hanno superato il muro che separa Israele dal Libano lungo la Blue Line per ritrovarsi vittime di una violenta imboscata delle unità Radwan di Hezbollah nella cittadina di Odeisseh. Un altro battaglione ha vissuto più o meno la stessa esperienza nel villaggio di Maroun al Ras e ha dovuto procedere con una ritirata tattica. Alla fine, attorno alle 13, il bilancio era di diversi feriti e di almeno 8 morti tra i soldati israeliani (altre fonti parlano di 14, ndr), secondo quanto riportato prima da Hezbollah e poi anche dalle stesse Idf in serata. I feriti, trasportati in elicottero all’ospedale di Haifa, sarebbero 39.

Le imboscate sembrano evidenziare la declinazione da parte degli miliziani libanesi del concetto di mission command in base al quale, quando si trovano sul campo di battaglia, vengono autorizzati a prendere decisioni operative indipendenti dalla catena di comando. Procedure che in Hezbollah sono oliate, risalenti almeno al 2006. Come ricordato da diversi analisti, lo sforzo bellico israeliano in Libano potrebbe diventare insostenibile da diversi punti di vista, primo tra tutti quello umano, legato appunto alle perdite: nella Striscia di Gaza, nel corso di un anno, contro una formazione di miliziani poco equipaggiati e meno numerosi degli Hezbollah, con un coinvolgimento a terra relativo (sostituito soprattutto dai raid aerei) e in un territorio morfologicamente “semplice” in quanto totalmente pianeggiante, le Idf hanno perso oltre 750 soldati, anche se non esistono dati ufficiali per via della nota opacità israeliana. Il sud del Libano è molto diverso dalla Striscia in termini morfologici – pieno di gole, depressioni, colline, promontori, fitti boschi -, ed è il territorio naturale dei miliziani di Hezbollah che sono infinitamente più equipaggiati e militarmente più preparati di quelli di Hamas. Inoltre, la rete di tunnel è più estesa e cela probabilmente missili di gittata più lunga di quelli finora utilizzati dal Partito di Dio.

Non è detto che un’operazione militare israeliana in Iran trascini l’intera regione in un conflitto di larga scala: dopotutto, Iran e Israele condividono in modi diversi e per ragioni diverse una certa impopolarità regionale, motivo per cui gli altri attori del quadrante potrebbero, almeno nelle prime fasi, rimanere a guardare. È anche il caso di Paesi come la Turchia, che hanno un interscambio commerciale rilevante con l’Iran ma allo stesso tempo sono membri della Nato.

Le complicazioni, ovviamente, riguardano un eventuale intervento americano, che in prima battuta stimolerebbe il lancio di razzi sulle basi statunitensi in Iraq e nel Golfo Persico da parte delle milizie irachene come Kataib Hezbollah o Asaib ahl al Haq. Assai probabile, anche a prescindere da un intervento americano, la partecipazione degli Houthi, magari con una ripresa sistematica delle azioni di sabotaggio di navi commerciali e petroliere davanti al porto yemenita di Hodeida, che mirino anche all’innalzamento del prezzo del greggio. Al di là di queste azioni asimmetriche, non c’è molto altro che l’Iran può mettere in campo sul piano difensivo o dissuasivo ma ciò non significa che una intensa campagna di bombardamenti possano farla capitolare così facilmente, anche perché è quasi totalmente da escludere una qualunque azione di terra in territorio iraniano.

Se messo all’angolo l’Iran, oltre a stimolare i propri alleati, potrebbe decidere di colpire altri attori della regione e nella fattispecie quei Paesi che hanno “normalizzato” i rapporti con Israele, o quelli che sarebbero interessati a farlo, come ad esempio l’Arabia Saudita. Degli avvertimenti iraniani erano già arrivati ad aprile nei confronti degli Emirati Arabi Uniti, diffidati dall’aprire il proprio spazio aereo ai jet israeliani. Una escalation tra Israele ed Iran potrebbe infine concludersi o arrivare a uno stallo in modalità simili a quelle a lungo ventilate rispetto al conflitto in Ucraina e che sono molto poco rassicuranti: Teheran, se messo alle strette, potrebbe chiedere a Mosca l’invio di alcune testate nucleari tattiche, in modo da poter effettuare un test dimostrativo che abbia funzioni dissuasive. É chiaro però che uno scenario simile avrebbe probabilmente a sua volta la funzione di coinvolgere gli Stati Uniti.

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