Apri il cancello, chiudi il cancello. Questo gesto apparentemente semplice nasconde un abisso di responsabilità e paradossi, in primo luogo per la polizia penitenziaria che nel carcere è presenza costante e doverosa in nome e per conto dello Stato e delle sue leggi. Perché dietro le sbarre si consuma una tragedia silenziosa: il collasso della sanità carceraria, che trasforma ogni disturbo in una potenziale condanna a morte.

Otalgie, dermatiti, prostatiti: patologie comuni che, in carcere, diventano calvari senza fine. La situazione peggiora drammaticamente quando si tratta di malattie psichiatriche. Con la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) e la cronica carenza di posti nelle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems), i detenuti con problemi mentali si ritrovano in celle ordinarie, senza il supporto di infermieri e medici specializzati in psichiatria.

La rivoluzione promessa con la medicina penitenziaria si è trasformata in un incubo, il passaggio al Servizio Sanitario Nazionale ha aperto il vaso di Pandora: medici inesperti catapultati in un mondo alieno, direzioni carcerarie in perenne conflitto con le Asl e una drammatica assenza di specialisti. Il risultato? Mesi di attesa per una visita oculistica, andrologica, ortopedica trasformano ogni giorno di detenzione in una tortura fisica e psicologica che si riversa anche nel rapporto con l’agente di prossimità, dal quale si pretende una risposta che lo stesso non può dare.

In questo circolo vizioso, gli agenti di polizia penitenziaria si ritrovano a svolgere ruoli per cui non sono né preparati né autorizzati: infermieri improvvisati, psicologi d’emergenza, mediatori in un sistema sanitario in frantumi. La beffa più crudele? Se un detenuto muore, il dito viene puntato contro di loro: “Ritardo nei soccorsi”, si sente dire, ignorando l’inefficienza cronica del sistema, la “colpa dell’apparato”.

Le testimonianze degli agenti dipingono un quadro agghiacciante: detenuti che aggrediscono per ottenere una visita dentistica, altri che implorano un controllo cardiologico come se fosse l’ultimo desiderio di un condannato. C’è chi, disperato per una visita negata, si infligge lesioni su tutto il corpo. E gli agenti? Spettatori impotenti di questo teatro dell’assurdo, a contatto con persone portatrici di malattie infettive.

La burocrazia, un mostro che divora le vite, complica ulteriormente la situazione. Informazioni vitali si perdono in un labirinto di scartoffie e rimpalli di responsabilità. Le diagnosi arrivano in ritardo, le terapie vengono interrotte, le vite spezzate. Persino una banale distorsione alla caviglia può trasformarsi in un’odissea al pronto soccorso, mettendo in moto una macchina sanitaria e di sicurezza sproporzionata, sottraendo risorse a chi ne ha veramente bisogno.

Le visite esterne sono un altro capitolo della tragedia: la metà salta per mancanza di personale di scorta, mentre le evasioni dagli ospedali diventano un appuntamento ricorrente, aggiungendo beffa al danno. Come diceva Foucault, “bisogna avere il coraggio di dire ma anche di ascoltare”. E cosa ci dicono gli agenti, se solo ci fermiamo ad ascoltarli? Che sono intrappolati in questo inferno tanto quanto i detenuti, vittime e testimoni di un sistema che tradisce la sua stessa ragion d’essere.

Il carcere non può e non deve essere un lasciapassare per l’obitorio. La medicina dietro le sbarre deve rinascere, non per buonismo, ma come dovere costituzionale e umano. Gli agenti non possono essere complici di questa vergogna, né capri espiatori di un fallimento sistemico.

Il problema della malasanità in carcere, benché di evidente drammaticità, apparirebbe quasi irrilevante rispetto alle altre più macroscopiche pecche del sistema e i primi che sembrano ignorarne le conseguenze, oppure che si sentono schiacciati dalla capillare diffusione delle disfunzioni sul territorio sono proprio coloro che nell’amministrazione penitenziaria centrale se ne dovrebbero occupare. Più in generale, i luoghi comuni spopolano: “hai sbagliato e sei finito in carcere? Che cosa ti aspettavi? Anche questa è parte della pena da scontare!”. Ma non è né deve essere così, il diritto alla salute è sempre lo stesso, in carcere e fuori.

Nuove e migliori carceri, più personale, meno promiscuità e maggiore ricorso alle pene alternative alla detenzione, certo, ma la priorità deve essere anche quella di riformare radicalmente un sistema che amplifica ogni patologia, trasformando disturbi gestibili in bombe a orologeria. Perché dietro ogni sbarra, ogni chiave girata, c’è una vita umana e un poliziotto che non può essere il parafulmine dell’improvvisazione e dell’inefficienza.

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