di Dafni Ruscetta

Scrivere di temi filosofici o spirituali rimanda a un senso di responsabilità. Verso chi, verso cosa? Proverò a esprimerlo con le poche parole che ho a disposizione in questa pagina.

Vi è stato un momento, qualche mese fa, in cui mi è parsa chiara questa esigenza, durante un’indimenticabile lezione del teologo Vito Mancuso al master in Meditazione e Neuroscienze dell’Università di Udine, a cui ho avuto la fortuna di assistere. Al termine di quell’incontro ho pensato alla responsabilità di dover trasmettere, attraverso uno sguardo personale, anche solo una minima parte della bellezza di cui ero stato testimone, perché quando questa trova uno spiraglio in cui manifestarsi può essere utile farla fiorire altrove. Ciò che portiamo nel mondo, come scrisse Viktor Frankl dopo esser sopravvissuto all’orrore di Auschwitz e Dachau, viene salvato “nella realtà preservandolo dalla transitorietà”.

La responsabilità è ciò che, verosimilmente, fece scrivere a Kant “il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”. È probabile che per ‘legge morale’ egli intendesse la disciplina di sé stessi, il rispetto del bene, inclusa la giustizia, che portano alla vera libertà dell’uomo.

E come si arriva a manifestare tale libertà? Anzitutto partendo dal conoscere noi stessi. Come sostiene Mancuso, infatti, spesso arriva un momento in cui l’uomo si confronta con la propria soggettività, con il proprio Io, ponendosi domande quali: “Chi sono, cosa ci faccio qui”? È in quel momento, quando ci osserviamo, che diventiamo davvero umani. Anche Franco Battiato, che aveva fatto della ricerca personale e della contemplazione uno stile di vita, sosteneva che l’evoluzione passi attraverso il cambiamento di sé, che la crescita individuale porti necessariamente bellezza.

Per conoscere noi stessi è indispensabile trovare una via che ci metta di fronte alla nostra parte più intima, al silenzio interiore, alla solitudine ‘dello stare da soli’, come afferma ancora Mancuso (riprendendo un concetto caro anche ad Hannah Arendt), intesa come raccoglimento, non come isolamento. In questo senso la contemplazione – tra cui la meditazione – è una grande forma di resistenza che ci rimanda alla libertà esercitata ogni giorno, che conduce alla pazienza, alla pace dentro di noi e, quindi, all’accettazione.

Possiamo così ricollegare quest’ultima alla dimensione dell’etica, con la quale l’individuo si eleva. Mancuso, citando lo scrittore russo Vasilij Grossman, parla del ‘fare il bene per il bene’, senza interesse immediato, perché siamo tutti parte di un sistema, di una connessione con il mondo. E sottolinea ancora come normalmente questa relazione possa solo essere armoniosa, ciò che peraltro accade anche in natura. Lo stesso organismo umano è una combinazione di rapporti equilibrati, quando questa non avviene il corpo tende ad ammalarsi. L’etica ha quindi a che fare con la relazione simmetrica, in cui le parti collaborano inevitabilmente tra loro.

Affinché tale collaborazione diventi stabile dovremmo sempre tenere a mente che ogni cosa ha una fine, alcune filosofie orientali parlano di ‘impermanenza’. Al termine della vita, sostiene Mancuso, dovremo separarci da tutto, solo le azioni che avremo compiuto verranno con noi, l’agire nella quotidianità, potremo capire se siamo stati liberi solo giudicando le nostre azioni. Lo scopo finale è dunque l’intera destinazione dell’uomo, formarsi come esseri umani, ciò che ci realizza come esistenze uniche e irripetibili.

Scrivere di questi temi, dunque, rievoca quel senso di responsabilità di cui parlavo all’inizio, di libertà, anzitutto verso noi stessi. Scrivere, come ricorda il filosofo Duccio Demetrio, rappresenta una forma di interpretazione simbolica della propria presenza, ciò che sollecita una maturazione interiore. A partire da questa trasformazione individuale – psicologica e spirituale – potremo assumerci una nuova responsabilità verso gli altri, nonostante le avversità che incontreremo nel farlo. Ecco per cosa scrivere.

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